Giovanni Audiffredi, Vanity Fair 12/3/2014, 12 marzo 2014
ENNIO DORIS GRAZIE, LINA
«Lina è la donna migliore che potesse capitarmi di incontrare. La sua presenza, il suo affetto, la sua comprensione, i suoi consigli, il suo appoggio incondizionato alle mie scelte, la sua dedizione a me e alla famiglia sono stati determinanti in ogni momento della mia vita. Senza di lei non sarei l’uomo che sono oggi, quindi non potrò che esserle eternamente grato per tutto ciò che mi ha dato. Non potrò che esserne eternamente innamorato». E poi dicono che gli uomini di banca non hanno cuore. Ennio Doris, il banchiere più famoso e più ricco d’Italia (nella classifica di Forbes è al 16° posto tra i paperoni nazionali con un patrimonio di famiglia di 2,5 miliardi di dollari), alla moglie ha dedicato un intero capitolo della sua autobiografia: è intitolato 99014, il numero di telefono che aveva da ragazza nella casa di Tombolo, provincia di Padova. È lì, dove entrambi sono cresciuti, che una sera d’estate del 1962 si sono conosciuti. Lui, 22 anni, serviva i clienti della Banca Antoniana a domicilio, dopo cena, come usava in campagna per cementare il rapporto. Lei aveva 15 anni e lo ha folgorato.
C’è anche domani è un libro per bisognosi di ottimismo e curiosi di sapere come ha fatto un povero in canna, ma traboccante di autostima e rigore, a voler curare i suoi clienti-investitori al punto da definirsi «medico del risparmio» e fondare un gruppo di finanza in costante crescita.
Ennio Doris lo conoscete di vista perché è il signore che traccia cerchi negli spot della sua Mediolanum, e promette di girare intorno a voi, proteggendovi, con i suoi prodotti. Professa una fede incrollabile nel principio: «I clienti sono re: li amo, mi danno i loro soldi e la loro fiducia». Parole di un talebano della vendita porta a porta? Bisogna comunque dargli atto che quando nel 1981 il ministero delle Finanze dichiarò non deducibili dalle tasse i prodotti previdenziali che anche lui aveva venduto, spese 20 milioni di lire, di tasca propria, per imbastire un vittorioso ricorso per tutti i suoi clienti, con l’aiuto del giurista Victor Uckmar. E pochi anni dopo, quando gli italiani avevano la febbre della Borsa, rimettendoci pesanti commissioni, vietò ai suoi risparmiatori di investire nel mercato azionario grosse somme in un’unica soluzione, salvandoli dal crollo dei mercati del maggio 1986. Ma il vero atto di fede gli è costato milioni di euro. Infatti Doris, quando il 15 settembre 2008 fallì la banca americana Lehman Brothers, rimborsò con il proprio conto personale il controvalore di quello che aveva fatto investire ai suoi clienti. Il miracolo fu che convinse anche il suo socio Silvio Berlusconi a partecipare: «È stato uno straordinario investimento. Abbiamo dimostrato che facevamo banca in un modo diverso. Il tempo ci ha ripagati».
Se le dico povertà, a cosa pensa?
«Ai bambini».
Bambini poveri come lo è stato lei?
«Era una miseria diversa. Non ci mancava la felicità».
Che segni le ha lasciato?
«Non porto il denaro nel portafogli, ma ripiegato nella tasca dei pantaloni. Getto via le cose solo quando sono irrimediabilmente consumate. Soffro nel far compere. Il mio primo abito, un gessato blu di Ermenegildo Zegna, lo aveva già portato mio zio per vent’anni. Nel passarmelo lo hanno rovesciato. Quindi il taschino era sulla destra e la stoffa un po’ più ruvida. L’ho indossato fino a che sedendomi in treno si sono aperti i pantaloni sulle ginocchia».
L’amore è davvero importante per lei?
«Ama il prossimo tuo come te stesso, laddove è anche il tuo nemico, è un sentimento rivoluzionario che mi ha sedotto».
È religioso?
«Non ho mai visto un tubo di ferro senza che nessuno lo abbia costruito. Gli esseri umani sono molto di più, ci deve essere una mano dietro la vita».
Ma è vero che lei, uomo di freddi calcoli, devoto della Madonna di Medjugorje, crede ai miracoli?
«I miracoli Dio li fa attraverso gli uomini. Le racconto un barzelletta. Un imprenditore napoletano deve aprire un cantiere e prega San Gennaro perché interceda per la sua concessione edilizia. In chiesa, dietro di lui c’è un povero che prega San Gennaro di fargli trovare 50 euro. L’imprenditore lo guarda e gli dice sprezzante: “Smettila che me lo disturbi. E poi per così poco...”. L’altro continua a invocare la grazia. Allora il ricco tira fuori dalla tasca il denaro e glielo mette in mano: “Prendilo e vattene”. E il povero risponde: “Grazie San Gennaro”».
Quale è il suo peccato?
«Sono irascibile. Per farmi passare l’arrabbiatura esco di casa e faccio cinquanta chilometri in bicicletta. Poi rientro svuotato, mi do dello sciocco, e chiedo scusa a mia moglie».
È geloso?
«È un sentimento misero e puerile».
Da dove nasce la sua combattività?
«Merito di mio padre. Sono convinto che i bambini cerchino di corrispondere all’immagine che l’adulto di riferimento ha di loro. Papà non mi diceva in faccia: “Sei bravo”; faceva in modo che lo sentissi mentre parlava bene di me con un’altra persona. E io volevo solo essere come lui pensava che fossi».
Lei è tra quelli che credono che i giovani non trovano lavoro perché stanno a casa comodi?
«Sicuramente il lavoro manca. Ma tanti commettono un errore: limitano il proprio orizzonte perché si accaniscono a cercare un certo tipo di lavoro. Bisogna sempre fare qualunque cosa, anche di umile, in attesa di trovare la propria strada. E va fatta al meglio. Così la vita ti viene incontro».
Giovani che non sono suoi clienti.
«Non è detto. Il risparmio è un istinto insopprimibile in chi ha bisogno. Bisogna saper rinunciare anche a cinquanta euro, sembrano nulla, ma non è così. Il mio principio è: consumare domani quello che potresti consumare oggi».
La crisi cos’è?
«Rottura di un equilibrio per crearne un altro, è un’ottima opportunità. Non c’è da aver paura. La crisi è il bello della vita. È come la salita nel ciclismo: rallenta tutti, ma è lì che si vedono i veri fuoriclasse».
Quali imprenditori faranno il futuro dell’Italia?
«Gli immigrati, perché hanno più fame».
L’uomo dei sogni avrà avuto un incubo?
«All’inizio volevo far carriera in banca. Poi ho scoperto di avere una vocazione imprenditoriale. Ma la notte sognavo di essere dietro il bancone con le inferriate alle finestre. Forse temevo di non riuscire».
Adesso che tipo di ansie ha?
«Anche il più grande successo ottenuto, un istante dopo per me è già alle spalle. Cerco ostinatamente di capire che cosa mi aspetta domani. E che cosa possono inventare i miei concorrenti. Sono consapevole di non essere l’unico dotato di cervello».
Banca è diventata una brutta parola.
«In parte se lo sono meritato: le banche non sono mai state veramente trasparenti. Ma ci sono anche falsi luoghi comuni: gli istituti italiani sono quelli che prestano più denaro al mondo».
E perché ora sono in crisi?
«Non per aver fatto speculazioni spericolate, ma perché sono esplosi i fallimenti delle aziende italiane. E l’aver dato denaro all’economia reale le ha penalizzate».
Amico e socio di Silvio Berlusconi. È vero che nel 2011 gli ha consigliato di dare le dimissioni da premier?
«Gli ho detto: “Fai un passo indietro”. Dovevamo pensare alle aziende: non alle sue, ma a tutte quelle del Paese».
Era una presenza imbarazzante?
«La politica di Berlusconi poteva essere contro l’interesse di quei Paesi che sono stati favoriti dall’Euro. E quando è stato il momento, non lo hanno aiutato».
Poi lei ha tifato per Enrico Letta.
«Tifo per la stabilità dei governi. Adesso spero nel successo di Matteo Renzi. Ma ha enormi forze contrarie».
Quali per esempio?
«Prima di tutto il sistema. Non c’è un premier con responsabilità chiare che abbia il vero potere di cambiare le cose».
Le piace l’ambizione di Renzi?
«È un sentimento positivo, sono le strade che percorri per realizzare la tua ambizione che fanno la differenza. La correttezza è un valore».