Francesca Bussi, Vanity Fair 12/3/2014, 12 marzo 2014
«ERA IL MIO PAPÀ, NON SOLO L’OPERATORE»
Arriva un momento in cui Ian Hrovatin mi dice che il padre «era famoso per le sue serate diapositive». E si apre in un sorriso, sotto il sole del Messico, e lo stesso faccio io, mentre le ombre si allungano su Milano. In un attimo ci accomuna attraverso una webcam, a più di diecimila chilometri di distanza, uno dei più classici ricordi delle infanzie vissute negli anni Ottanta.
Il 20 marzo saranno passati vent’anni da quando suo padre ha smesso di fotografare il mondo, lasciando nella loro casa di Trieste un archivio di rullini, immagini e diapositive, e un futuro incompiuto in cui, chissà, forse avrebbe finalmente abbandonato gli scenari di guerra per arruolarsi nel National Geographic. Saranno passati vent’anni da quando Miran Hrovatin è morto in Somalia, fermato da una pallottola sparata a bruciapelo.
La notizia la dà l’Ansa, in quella domenica del 1994: «La giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo operatore, del quale non si conosce ancora il nome, sono stati uccisi oggi pomeriggio a Mogadiscio nord in circostanze non ancora chiarite». In Italia tornano, chiuse in valigia, anche le conchiglie e la sabbia che Miran aveva raccolto per il figlio di 8 anni. Quel figlio che la madre, Patrizia Scremin, decide di proteggere. Niente interviste, niente riflettori. Solo oggi, dice Ian, è arrivato il momento di ricordare un padre che «non è solo un anonimo “operatore”, ma una persona straordinaria. Era, e lo è ancora in qualche modo, un padre e un amico fuori dal comune».
È la prima volta che parla di lui.
«A volte ne parlano come se non avesse un nome, e mi dispiace. Forse è inevitabile, data la scarsa esposizione mediatica che mia madre e io abbiamo scelto di avere, mentre i genitori di Ilaria Alpi sono stati più attivi. Trieste è una città piccola, ogni volta che mi presentavo mi chiedevano se fossi il figlio del “cineoperatore ucciso in Somalia”. Mia madre non voleva che crescessi come “l’orfano di Miran Hrovatin”. Mi ha protetto, ed è stata la scelta giusta. Ho avuto una vita serena».
Ha seguito la vicenda giudiziaria?
«È un tema che per lungo tempo non ho voluto affrontare. O forse ho solo accettato la versione ufficiale perché era più digeribile. Crescendo, mi sono accorto che lasciava ombre. Ci sono tante storie che si intrecciano, in Somalia. Capri espiatori. E fa paura pensare che forse ci sono forze occulte, che operano dove non dovrebbero».
Sapere finalmente la verità sarebbe una consolazione?
«Onestamente, non tanto. Sarebbe un esercizio democratico per il nostro Paese, ma non è mai stato il nostro scopo. Mia madre ha fatto della memoria di mio padre le fondamenta del resto della nostra vita, separandola dalla vicenda giudiziaria. Non ce ne siamo disinteressati, è chiaro, ma non abbiamo nemmeno vissuto solo per quello. Siamo già stati vittime, quel giorno».
C’è chi ha dipinto suo padre come uno sprovveduto.
«Era un professionista, aveva lavorato a lungo nei Balcani. Credo non fosse del tutto cosciente degli scenari che si stavano sviluppando in Somalia. Forse lì la situazione era più complessa di quanto si potesse immaginare da lontano. La sua idea era di andare a filmare le truppe Onu che si ritiravano. Poi, lui e Ilaria si sono trovati in mezzo a cose più grandi di loro».
Di suo padre si ha un’immagine schiva.
«Hanno fatto un film anni fa (Ilaria Alpi, il più crudele dei giorni, ndr), senza consultare noi familiari, e questo forse ha contribuito: mio padre era diverso da come appare lì. Per diventare operatore di guerra, serve stomaco. E attributi. Lui affrontava tutto con umanità, ma anche con una certa spensieratezza. Era indispensabile, per poter resistere a quello che vedeva, per bilanciare l’amarezza del suo lavoro. Era allegro, estroverso. Un po’ stravagante».
In che senso?
«Non era un hippy, ma neanche il classico padre che si alza alle sette, si rade, mette la cravatta e va in ufficio, a sedersi dietro a una scrivania. Teneva la barba lunga, inforcava gli occhiali da sole, saliva in moto e correva al suo lavoro creativo con il sorriso. Era un uomo maturo che non aveva perso la voglia di vivere con leggerezza».
Com’era la vita con lui?
«Era una figura paterna eccezionale. Aveva umanità, humour e passione per il lavoro. Non cercava lo scoop a tutti i costi. Aveva degli ideali. Non si limitava a riprendere la gente, ma partecipava a ciò che succedeva loro. Quando partiva, portava giocattoli per i bambini di Sarajevo».
È per questo che lei lavora per le Nazioni Unite, in Messico?
«Immagino che sia stato lui a trasmettermi questa coscienza della sofferenza altrui, e il desiderio di alleviarla. A 7 anni sapevo bene che c’era una guerra, che la gente moriva. E che c’erano persone che cercavano di evitarlo. Dalla Bosnia, mio padre tornava con dei regali o con dei bossoli. Una volta, con un casco dell’Onu. Non erano cimeli. Erano ancore, per non dimenticare che cosa aveva visto».
Non era un lavoro facile.
«Qualcuno deve farsi carico di raccontare quello che succede, anche se ha un costo. Tanti, come lui, lavorano in posti difficili con umanità e intelligenza, mettendosi in pericolo per pochi soldi, senza essere ricordati. A mio padre piaceva. Quando è andato in Somalia, mia madre ha avuto l’impressione che il rischio crescesse, perché si allontanava dai Balcani, che conosceva bene. Quella volta, lei aveva qualche preoccupazione in più».
Si ricorda il giorno della sua morte?
«Mia madre mi disse che c’era “un problema”. Le ho chiesto se fosse successo qualcosa a scuola. No, mi ha risposto. Qualcosa con papà, ho detto allora. Mi ci sono voluti due tentativi. Dei giorni successivi ricordo le figurine, tante. Mia mamma non è mai stata così generosa di regali come in quelle settimane. E ricordo gli amici di mio padre: erano come fratelli per lui e hanno fatto scudo intorno a noi».
Che cosa farà il 20 marzo?
«Lo ricorderò facendo qualcosa di bello, celebrando la vita che mi ha dato. Senza pianti. Lui, di sicuro, preferirebbe sapermi in spiaggia a fare surf».