Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 12 Mercoledì calendario

LA GRANDE GUERRA DELLE TELEVISIONI (PER SOPRAVVIVERE)


Deponete i crisantemi, la tv non è morta. I fratelli Giovanni e Bruno Fra-carro di Castelfranco Veneto lo sapevano, e con anticipo olimpionico. Quando la radio già ammorbava i salotti italiani col gracchiare nervoso, le musiche che non potevi danzare e le notizie che non potevi esaminare, i Fracarro proposero un pacco di ferraglie a domicilio che, incastrate e montate con ingegno pionieristico, componevano un televisore. Quasi un secolo fa. Il contenitore era (sarà) il mezzo. Con capacità di reazione che variano dal centometrista allenato in Giamaica e un anziano in stampelle e miopatico, le aziende italiane (o straniere) spendono milioni di euro per innovare il contenitore. Come i Fracarro. Al contenuto ci pensi tu, telespettatore, se preferisci guardare la scatola sbracato in poltrona, in diretta, in replica oppure in viaggio con le tecnologie più sofisticate e interattive. Le quattro sorelle Mediaset, Sky, Rai e La7 convivono con reciproci sospetti e cercano, un po’ disperate e un po’ affannate, di presidiare il mercato che occupano con il terrore di restare con poca pubblicità e pochi abbonati. Perché se il peggio deve ancora venire, il meglio è davvero passato.

Mediaset e l’urgenza di trovare soci
I lampioni stradali di Corso Europa a Cologno Monzese, lembo di Milano che fu, sono imponenti. Un’epoca fa, magari, li invidiavano. Cancelli intimidatori e un po’ sbertucciati circondano il bastione di comando di Mediaset, indigestione di cemento e strapuntini di verdognolo. Qui girava il pizzone: la mitologica cassetta che, spedita per le montagne trentine o per le ferriere pugliesi, irradiava in contemporanea l’intera nazione e beffava l’emittente di Stato (e pure le regole). Un ufficio di un dirigente ha un tavolo rettangolare, fra il padrone di stanza e l’interlocutore svampito ci sono un paio di metri. Il tavolo rappresenta la rendita che Mediaset ha accumulato nei decenni di grandi invenzioni e grandi scorribande e che mantiene a misura di sicurezza i concorrenti, soprattutto Sky. Questa distanza è sempre più fragile. I bilanci non macinano più miliardi di dividendi per gli azionisti, le inserzioni pubblicitarie possono risalire e le casse custodiscono una consistente liquidità, ma il Biscione vuole attrarre capitali freschi. Il primo mattone da rimuovere è Mediaset Premium. A Cologno Monzese non negano che l’operazione tv a pagamento fu necessaria, quasi vitale, per contrastare il monopolio di Rupert Murdoch, ma ora va capito in che direzione scagliare quel mattone. Non viene escluso l’ingresso di un socio; i francesi di Tf1 e gli arabi di Al Jazeera stanno già spulciando i conti. Quando vogliono scherzare, fra un tiro di sigaretta e un caffé non zuccherato, avviluppati in moderni arredi di legno, al Biscione dicono che per il munifico Murdoch l’italiana Mediaset vale una provincia africana. Il disprezzo misura la rivalità. Ma significa che Mediaset, nonostante la succursale spagnola, deve indossare un profilo internazionale. Non sarà questione di giorni, ma nei prossimi mesi s’aspettano buone notizie da Madrid. Il Biscione detiene il 22% di Digital Plus, l’omologa di Sky in Spagna, un identico 22% è di Telefonica e il restante 56% è di Prisa (editore del El Pais) che vuole vendere. Al galoppo di Telefonica che può sborsare milioni con più scioltezza, Mediaset vuole creare una struttura italo-spagnola per l’offerta a pagamento: la merce più pregiata è il calcio. A Cologno non sono dogmatici. Non credono che i canali generalisti, cioè i primi 7 del telecomando, siano irrilevanti; e ti ricordano che Canale 5 con la Grande Bellezza ha scorticato 2 milioni di pubblicità in tre ore. E non credono neppure che il telespettatore sia disposto a scucire decine di euro per una sottoscrizione a lunga durata perché appassionato di cinema. E così ti spiegano la piattaforma Infinity, la libreria di film da vedere in streaming, che consente di avere lo stesso comportamento che il consumatore ha davanti a uno scaffale: osserva, confronta e va verso la cassa. Allora, a che servono quei 660 milioni di euro per un triennio di esclusiva di Mediaset Premium per la Champions League? Semplice: a garantire un pezzo di futuro perché Sky dovrà trattare con il nemico e gli stranieri possono comprare qualcosa di valore. Il ragionamento è spietato. Al Biscione non interessa coccolare con la melassa l’abbonato (quella è la filosofia di Sky), se l’ad Andrea Zappia viene con un assegno firmato Murdoch da (almeno ) 350 milioni di euro il problema non sussiste più: la Champions viene condivisa, fra satellite e digitale, e l’inciucio viene rinnovato. I due gruppi, quando la coppa dalle grandi orecchie ce l’aveva Sky, già si misero d’accordo tre anni fa. Questa è l’ipotesi più affascinante da giocare al casinò. Ma per evitare imprevisti letali e per giustificare la spesa, a Cologno calcolano che con 2,3 milioni di abbonati – adesso sono 2 – quei 660 milioni di euro non faranno danni. Il rischio sarà non crollare sotto 2 milioni la prossima stagione con Sky che avrà la Champions e Mediaset Premium la sfigata Europa League. Bene. Oltrepassati questi scenari con un eloquio tipicamente milanese - “noi vogliamo fare grana” - a Cologno ti fanno notare che le vecchiette Rete4-Canale5-Italia1 fanno ancora il 26,5% di share durante la giornata. Lo spezzatino digitale allunga il telecomando e fa disperdere il pubblico: ci sarà presto una selezione e Mediaset, senza precedere i rivali, non capita spesso, vuole elevare il livello di Canale 5: assisterete al progressivo rimpicciolimento di Rete4 e Italia1, non domani di certo, ma non fra decenni. A Cologno vanno contro la tendenza: Rai e Sky insistono con il telegiornale 24 ore su 24, a Mediaset non sono entusiasti di Tgcom24, preferiscono far crescere l’omonimo sito.

Sky deve difendere i suoi abbonati
Rogoredo, ex periferia industriale di Milano, ora ammasso di casermoni anonimi e già fatiscenti. Il quartier generale di Sky è rivestito di vetro trasparente. Il vetro sta ovunque: fra l’esterno e l’interno, fra il dirigente e il dipendente, fra la sala macchine e l’uscio di passaggio. Sky vuole apparire spartana, essenziale e, non per vezzo, non troppo italiana. Il giardino pensile, ritrovo per ossigenare, non poteva mancare. La sensazione di spreco, o di eccessivo o elitario, la stessa che le promozioni cercano di introiettare ai clienti, viene presto smentita. I riscaldamenti non richiedono spese, non perché Sky sia in bolletta, ma perché il calore emanato da migliaia di cavi è convertito in energia elettrica (e acqua calda). L’operatore con l’obiettivo in spalla oppure in piedi asfissiato negli studi è una specie in via d’estinzione: l’uomo viene sostituito da una telecamera robotizzata da 150.000 euro, un cervello perfettamente istruito che s’accende e s’arresta, si gira di lato o punta in alto con una rapida programmazione. Quando i Murdoch piazzarono la bandierina fra Cologno Monzese e Viale Mazzini le previsioni di accademici e studiosi pronosticavano 10-12 milioni di abbonati entro il 2010. Un mercato che non s’è mai intravisto in Italia. Sky ha ondeggiato sui 5 milioni, poi è scivolata a 4,760: lavorano per mantenere questa quota. Vanno a pescare nel tipico italiano, spettacoli per talenti di canzoni (X-Factor) o cucina (Masterchef), un po’ di volti sparsi, serie televisive americane e produzioni in proprio. In principio fu Romanzo Criminale, poi Gomorra e 1992 (le stragi di mafia). Il canale dove confluiranno questi prodotti si chiama Sky Atlantic, che sarà sostenuto da un patto pluriennale con l’americana Hbo, la tv famosa per le serie tv di successo mondiale, I Soprano, Il trono di spade. A Sky vivono un po’ in bilico fra il digitale in chiaro di Cielo, lo steaming di Sky Online e il satellite classico che drena miliardi di euro. Usano la metafora del cibo per risolvere la triplice identità. Cielo è la mensa: il telespettatore assaggia una pietanza leggermente elaborata e poi, se ingolosito, chiama per acquistare un pacchetto. Sky Online, per il cinema, è il bistrot: più impegnativo, ma non totale. E il ristorante cinque stelle, ovvio, è l’insieme di Sky che ha superato i 10 anni italiani e 10 miliardi di investimenti. Anche i Murdoch, che non hanno opposizioni per il satellite in Italia, si preparano al fu- turo che, per paradosso, potrebbe anche non avere le parabole. La collaborazione fra Sky e Fastweb è sempre più solida e, ormai, imprescindibile: perché chi fa telecomunicazione deve dialogare con chi fa televisione, e viceversa. Per non far scappare i 4,760 milioni di utenti - colpo in agenda per il 2015 - sarà lanciato un dispositivo (una sorta di decoder) che ti consente di vedere Sky su più televisori. Per sviluppare la tecnologia spendono 100 milioni di euro l’anno. Nonostante la perdita nell’ultimo bilancio, a Sky vanno avanti con la sicurezza di avere un guardaspalle, il signor Murdoch: le colonie, e non è scoperta di oggi, diventano ricche se venerano la madre patria. E Sky Italia è una colonia felice.

Ristrutturare la Rai, a partire dalle news
Il settimo piano di viale Mazzini, dove transitano direttori generali che i governi insediavano e spodestevano con una rapida riunione di maggioranza, è un monumento alla memoria. Un dedalo di stanze militarizza l’ufficio del Capo: è la protezione plastica che tenta di celare la debolezza politica. Quest’antiquato blasone, o quel che ne rimane, sarà rottamato con il trasferimento (pare) a ridosso del raccordo anulare di Roma, forse zona Magliana. Il dg Luigi Gubitosi, che fu scelto da Mario Monti per evitare la bancarotta, ha sistemato le finanze: ma il servizio pubblico non è una multinazionale che gareggia in Borsa. Viale Mazzini ha subìto il digitale terrestre, i 14 canali sono abbondanti e così li vogliono raggruppare in categorie: generalisti, bambini, cultura, cinema, scienza. Anche quattro telegiornali con quattro redazioni sono uno sfarzo anacronistico: il sito di Rainews sarà il principale, le riprese già sono uniche (a volte), chissà se pure i direttori verranno ridimensionati. Al settimo piano non contestano la pluralità, ma la guerra interna fra Rai1, Rai2 e Rai3: c’è poco da contendersi dentro, più opportuno guardare fuori. Rai1 sarà per il pubblico più trasversale, Rai2 per la fascia giovanile, Rai3 per l’informazione. Non ci sono progetti su carta né scadenze precise, ma in viale Mazzini vogliono abbattere un tabù: proporre contenuti a pagamento. Obiezione: avete il canone, ci sarà la rivolta popolare. No, niente modelli Sky o Mediaset, l’azienda vorrebbe plasmare una piattaforma (internet) per vendere film, serie tv e archivio. Ci vogliono strumenti adatti, però: stanziati 180 milioni di euro in tre anni per la completa digitalizzazione. Con ritardo, addio analogico. La Rai ha un costo che nessun concorrente deve sopportare: la politica. E il nome di Luigi Gubitosi è già stato infilato nel totonomine per le aziende partecipate dal Tesoro. Non avrete mai una conferma da Gubitosi, ma il messaggio a Matteo Renzi l’ha recapitato: se avete bisogno, ci sono. Vuol dire che è disposto a lasciare con un anno ancora di mandato in viale Mazzini, chissà se Renzi sarà disposto a toccare la Rai. Per mostrare un risultato concreto, nelle prossime settimane, Gubitosi comunicherà al Cda che il bilancio è in salute. Quando sbarcò in viale Mazzini il rosso annuale era di 244 milioni di euro.

Solo La7 sceglie il modello generalista
La gestione di Urbano Cairo a La7 ha compiuto un anno: dai tassisti ai baristi, se ne sono accorti tutti. Cairo ha risparmiato 5,5 milioni di euro ogni trenta giorni. Esempio: spese di trasporto mensile, 130.000 euro, adesso sono 30.000. Ha cancellato le trasmissioni - come le ricette di Benedetta Parodi - che col 2% di share succhiavano 26.000 euro a puntata. Scartata la muffa e blindati i Crozza, Mentana, Santoro, Formigli e Gruber, Cairo vuole rompere le catene di un palinsesto monotematico, che fa informazione (dibattiti) oppure sonnecchia. Il pomeriggio e il fine settimana vanno rivitalizzati e il presidente del Torino, che ha aumentato la quantità di pubblicità anche se il fatturato è sostanzialmente invariato, vuole sottoporre la rete a una cura di intrattenimento. Modelli tradizionali per una tv tradizionale. Com’era la cantilena, la televisione è morta? No, soltanto non è più quel rettangolo che conservate in camera o in cucina.