Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 12 Mercoledì calendario

NEL CANTIERE FUKUSHIMA LE FERITE DELLO TSUNAMI


Sono passati tre anni e il Giappone soffre ancora. Alle 14.46 di ieri, l’ora del terremoto magnitudo 9, in tutto il Paese è risuonata la voce stridula delle sirene antitsunami, che ha lacerato il silenzio di rimembranza per le oltre 19mila vittime della tragedia. Ce ne sono state ben 4mila nella cittadina più colpita, Ishinomaki, dove una cerimonia toccante si è svolta davanti alle rovine della scuola elementare Okawa dove perirono 74 bambini e 10 insegnanti. La scuola è diventata il simbolo più tragico dello tsunami dell’11 marzo 2011: si trova a oltre 5 chilometri dalla costa ma purtroppo in riva a un fiume, diventato una porta aperta per le onde assassine. Il lento salmodiare di decine di sacerdoti shintoisti ha scandito un dolore che non passa. Nei giorni scorsi una coppia di genitori ha deciso di fare causa alla scuola: non sa se otterrà giustizia, ma non vuole che tutto sia dimenticato. «Non ho promosso io la causa ma la sosterrò – dice Hitou Takahiro, uno dei genitori in lutto – Voglio sapere come sono andate le cose e l’unico modo per farlo è un processo».
Nessun processo penale
Sempre che un processo si tenga. Proprio alcuni giorni fa è stato respinto il ricorso sulla class action negata contro la società di gestione Tepco e il governo centrale per l’affermazione di responsabilità nella crisi nucleare alla centrale di Fukushima Daiichi. Non ci sarà alcun processo penale. Nessun accertamento giudiziario. Molti non demordono: è stata formalizzata una class action internazionale (4mila persone di 33 Paesi) contro i fornitori degli impianti della centrale (General Electric, Hitachi e Toshiba): pare ancora più improbabile che sia accolta. Anche il diniego di giustizia o almeno di una ricerca di giustizia crea sofferenza, così come il prolungarsi dei tempi del ritorno nella propria casa o nel proprio paese: i suicidi per stress mentale o fisico accertati hanno superato i 3mila.
Gravi problemi alla centrale nucleare
Nessuna verifica processuale di negligenze, anche se il mondo intero ha rischiato parecchio. Lunedì alcuni media stranieri (tra cui Il Sole 24 Ore) hanno potuto recarsi alla centrale, dove è andata in scena la simulazione del black-out totale del pomeriggio di tre anni fa nel bunker della centrale operativa dei reattori 1 e 2 (andati in fusione parziale come il numero 3). Nel buio totale un gruppo di tecnici aveva lottato disperatamente per salvare il Paese, evitando una catastrofe mondiale. Nessuno di loro lavora più, perché investito da troppe radiazioni. Il direttore Akira Ono ha ammesso che il problema non risolto dell’acqua contaminata assorbe le energie, impedendo di procedere a un piano organico per il decommissionamento: tutto resta allo stadio preliminare. La notizia è che si accelererà - da 15 a 40 al mese - la costruzione di serbatoi di stoccaggio di acqua radioattiva. Una misura-tampone. E stanno per partire i test per costruire muri "sotterranei" congelati a monte e a valle per limitare l’afflusso al mare dell’acqua che si contamina.
L’area della centrale è un immenso cantiere che sembra girare un po’ a vuoto. Per 5 km intorno, nessuno può abitare e in una fascia di rispetto più esterna gli ex residenti possono farsi vivi di giorno ma non dormire.
Ricostruzione complicata
Sono ancora 267mila gli evacuati, di cui 97mila vivono in prefabbricati provvisori: dovevano restarci per due anni, ne sono già passati tre e per molti ci vorranno altri anni prima di poter entrare in una vera casa. Il processo di ricostruzione delle abitazioni è rallentato da tre fattori, come osserva Kosuke Motani, chief senior economist del Japan Research Institute.
Primo, i rapporti complicati tra amministrazione centrale, provinciale e comunale, resi più difficili dai processi democratici (per cui in alcune comunità non si è raggiunto il consenso su dove costruire: se più a monte, come desidera il governo, o in riva al mare). Secondo, «è eccessiva la tutela giuridica della proprietà fondiaria e la sua frammentazione – sottolinea Motani - Per le pubbliche autorità è difficile espropriare terreni per la ricostruzione se alcuni piccoli proprietari non sono d’accordo, il che accade sempre in luoghi caratterizzati da una ferocia contadina nell’attaccamento alla terra da parte soprattutto delle persone anziane». Terzo, la carenza di lavoratori e materiali per l’edilizia, che già soffre la concorrenza del boom immobiliare in corso a Tokyo destinato a rafforzarsi in vista delle Olimpiadi 2020. Un fenomeno che rallenta l’intera economia, tanto che il governo è stato costretto a mettere allo studio la finora aborrita ipotesi di allargare le maglie dell’immigrazione. I risultati sono singolari: se prima dello tsunami nel Tohoku non c’era lavoro, ora a mancare sono i lavoratori.
Il debito morale per le vittime si trasforma in volano per una economia dagli spiccati tratti "keynesiani": si stanno spendendo miliardi e miliardi di euro in barriere antitsunami o per elevare il livello del terreno di 8 metri rispetto a quello del mare - come a Rikuzentakata - prima di iniziare a ricostruire le abitazioni, per paesi di 10, massimo 20mila abitanti pronosticati in ulteriore calo di popolazione. Già tre mesi fa un blogger anonimo che eccepiva, sostenendo che sarebbe meglio spendere di più su Tokyo, è stato scoperto: era l’appena nominato Commissario del Padiglione giapponese per Expo Milano 2015. Cacciato con disonore, perché certe cose si pensano ma non si dicono. Anche se è difficile negare che Keynes aleggi sui ciclopici lavori pubblici a Rikuzentakata, dove è stato anche salvato il "pino miracoloso", unico sopravvissuto di una pineta di 70mila alberi. Il costo della sua conservazione è stato superiore al milione di euro. Non ha pagato il Comune: è scattata una gara di donazioni anche internazionali per questo simbolo di speranza e di ripresa.