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 2014  marzo 12 Mercoledì calendario

MADAME BUTTERFLY E IL WEST


PARIGI Sarà magari ironico o sardonico, però mentre all’Opera di Roma si producono drammi o commedie sindacali e ministeriali e presidenziali circa le eventuali repliche di una sola eccelsa Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti con regìa di Chiara Muti, qui all’Opéra Bastille si replicano in due sere contigue, tranquillamente affollatissime, sia La Fanciulla del West sia Madame Butterfly del medesimo Giacomo Puccini. Con eccellenti direzioni di Carlo Rizzi e Daniele Callegari, nonché eccellenti spettacoli di Nikolaus Lehnhoff (già ad Amsterdam) e Robert Wilson, tratti dai successi teatrali di David Belasco a Broadway.
Minnie la candida era (ai suoi bei dì) un povero dramma di Massimo Bontempelli su «una povera fanciulla, oscura e buona a nulla», come canterebbe la Minnie del West. Con «nel cuore lo scontento, d’esser così piccina». Però di «prodigiosa purezza» e tanto «intimo universale candore» da credere a certe fole sugli «uomini artificiali» (cioè automi), giacché stoltamente convinta che «a non sapere non si è mai felici». E dunque, una perfetta Butterfly. Quindicenne, peraltro, E molto minorenne, malgrado quei vecchi tempi. Non solo. «Abbiam fatto la geisha per sostentarci». Ancora vergine, allora? Per la Minnie del West, invece «non ho che trenta dollari soli d’educazione. Se studiavo di più»...
Puccini, intanto, a D’Annunzio e a Ricordi: «Ora sai quello che mi ci vuole: amore-dolore. Grande dolore in piccole anime. Metti dei bimbi, dei fiori, dei dolori e degli amori. Perché, Dio mio, hai rinunciato al supplizio dei due piccoli amanti? Oppure, abbandonando i califfi e i carnefici, non hai pensato ad un’altra catastrofe più solenne e più impressionante?... Tu spiegagli il mio genere. Poesia, poesia, affettuosità spasimante, carne, dramma rovente, sorprendente quasi, razzo finale. T’ho rotto le balle? Non la pigliare a male».
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Quindi, da un lato funesti gong. «Noi vogliamo il carnefice! Al supplizio! Per man del boia, muoia! Sì, muoia! Con quale gioia! Ungi! Arrota! Che la lama, guizzi, sprizzi fuoco e sangue! Il lavoro mai non langue, dove regna Turandot! Quando rangola il gong, gongola il boia!».
Viceversa, all’opposto, quante lacrime! E quante stelle, fra i cieli bigi e le cuffiette rosa! «Sei tu che piangi! Son io che piango! Non piangere, Liù! No, Minnie, non piangete! Mio dolce amor tu piangi! » Insomma, «Strazio crudel! Grande ambascia! Un bene piccolino! Dammi il braccio, mia piccina! Che viso da malata! Sola, perduta, abbandonata, in una landa deeesolata! Vivo sola soletta, in una bianca caameeretta! Quante stelle! »... Comunque, sempre qualche redenziòn per i peccator...
In quel West, piangeranno la mia mamma, e il mio cane! O mia casa! E anche la nonna, se n’è andata! Nostalgia della terra natia — magari la vecchia Cornovaglia — fra le «ostriche sott’aceto, con whisky » ai tempi della Febbre dell’Oro, di Caruso protagonista, fra visioni di prati e boschi folti, e colline verdeggianti e «voglio l’aratro, vo’ la madre mia!». Ma soldi anche facili: «Mille dollari qui, se tu mi baci!». (Però, solo cinque più cinque al malato che sogna e rimpiange l’aratro e la madre). E il commovente cantastorie locale: «Tristi e soli i vecchi miei piangeranno... La mia mamma... quanto piangerà»... Passa tutt’al più un merciaio di trine e nastri da San Francisco, ma crescono pochi fiori, in quel Campo che malgrado «Addio mia dolce terra, addio mia California» non è certamente un campus. E può sembrare curioso che nel libretto di G. Civinini e C. Zangarini ci sia in questo saloon un bidone o barile dove tutti i minatori benché ladri dichiarati e svergognati devono versare la loro polvere d’oro, in comune, sotto una stretta sorveglianza continua. Anche da parte dell’ostessa Minnie, munita di pistole per qualunque autodifesa contro i ladri e i malfattori e i bari. Non per nulla, fra continue urla di «al laccio! », «a morte!».
Tanti videogiochi antichi nel saloon «fanno nostalgia». Ma i cavalli, in quel West, c’erano o no? Si ha l’impressione che loro si spostino soprattutto a piedi. Benché si menzioni un allegro puledro. Fra le rimembranze di una passeggiata a Monterey che si è poi rifatta per anni, sui sentieri verso Carmel.
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Lo spettacolo di Nikolaus Lehnhoff è piuttosto sbarazzino. Monta e smonta il saloon «Polka» con vertiginose prospettive di grattacieli e di Wall Street, molto più metropolitane che western. Rifà bene l’atmosfera di quei bar in cuoio nero, dove perfino i mezzi guantini sono molto maschili in black leather da hell’s angels, e le frequenti dispute mortali si svolgono intorno a futili sciocchezze.
Nel second’atto, la capanna di lei sarà un abitacolo di navetta capitonné in rosa confetto. Con una badante accoccolata accanto al suo piccino, gelo, «e nevica, vedessi come nevica». Dunque vestaglie pesanti, caffè, e una Madonnina molto illuminata, benché ai minatori lei spieghi e legga la Bibbia. Con la redenzione per i peccatori. E per il terz’atto, eccoci in un cimitero d’automobili sovrapposte, affollato e applaudito. Il tenore ha un fisico basso e grosso, mentre il baritono è prestante e attraente. Tornano quindi in mente le signore alla Scala di una volta: «La preferiss quel panzùn del tenùr». E viene una curiosità per la
Manon Lescaut nella regìa di questo Lehnhoff. Qui infatti si spostano le vecchie macchine, e su una scalinata luminosa sponsorizzata da M-G-M discendono lei e lui in abito da sera per un obbligatorio Lieto Fine preteso dagli spettatori del Metropolitan. Condannati a salvarsi insieme, con incertezze climatiche. «Addio mia dolce terra, addio mia California, bei monti della Sierra, nevi addio!»
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«Oh, mia piccola Butterfly... Quando le stelle, ritorneranno a brillar... Guardando quelle, noi ci potremo incontrar... Dolce notte!
Quante stelle! Non le vidi mai sì belle!... Brilla! Favilla! Pupilla!... Piccole cose! Umili e silenziose... ». E soccorso, rimorso, tormento, rimpianto, trapunto... Fiorito asil...
Questa Madame Butterfly diretta da Robert Wilson con Daniele Callegari stilizza così efficacemente il gusto della Giapponeseria accademica nella fine-Ottocento che perfino gli «America forever!» di questi Americani e le continue citazioni degli Stati Uniti nelle astute mescolanze del compositore devono risultare di un nipponismo totale. Ma evidentemente la vecchia popolare canzone «Signorine non guardate i marinai» conserva una sua validità, come il mortificante corollario di «Marinai, donne e guai». Malgrado le soavi ornamentazioni a base di olezzi di verbena.
Dunque, tutti solenni e ieratici con gesti wagneriani di profilo, in tuniche lunghe, come in un emporio di arredi, senza certamente un dentro o un fuori. In un Nulla di luminosità continuamente variabile. E tutti ostentamente giapponesi, a partire dagli Americani, mai in abiti o divise “occidentali”. Sicché trionfano l’analogia e la sintesi, e le differenze anche razziali scompaiono. Tutti automi, rigidi. Gravi, solenni, austeri, severi.
Vocalmente e fisicamente di ottimo aspetto, Svetla Vassileva è bulgara, generosamente scollata, nel celebre «Un bel dì vedremo». E il bel tenore Teodor Ilincai è rumeno, ma totalmente nipponico e non marittimo quando scende brevemente a terra con la moglie americana, anche lei giapponesizzante. In questo Nulla tipo Armani, perfino addirittura il bimbo, che è grandicello e non neonato, ed esegue impegnative coreografie. Forse però non aveva torto quel pubblico per cui il famoso Coro a bocca chiusa è un riempitivo di rallentamento.
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«La povera piccina, è d’uopo consolarla?». Mah. «La sventurata rispose» perché tutte le sventurate rispondono sempre. E poi? Può capitare che il Carmelitano Caritatevole getti la maschera e si riveli Lubrico Libertino, con smacco e disdoro per le stolte e malaccorte sventurate che eccitano il Carnefice Satanico fra un «comprendo poverina » e un «come t’han ben nomata, tenue farfalla». Dunque, harakiri! Tisi! Sete nel deserto! Zompo da Castel Sant’Angelo! Morale: cara la mia porcellona, qui e subito ti infilerò questo membro enorme che ti sfonderà e coprirà di sangue, e io sarò pazzo di gioia! (Mentre la sventata pellegrina, più bamboleggiante e provocante e minorenne di Shirley Temple, esegue moine e piccinerie tali da ingolosire naturalmente il Lupo di Cappuccetto Rosso).