Marco Ansaldo e Paolo Rodari, la Repubblica 12/3/2014, 12 marzo 2014
PERCHE’ FRANCESCO
CITTÀ DEL VATICANO Sono le 17.34 del 12 marzo 2013 quando il maestro delle cerimonie liturgiche Guido Marini, i movimenti misurati retaggio degli insegnamenti del cardinale genovese Giuseppe Siri, annuncia con voce timida l’“extra omnes”, “fuori tutti” dalla Cappella Sistina. A parte i 115 cardinali elettori, dal più giovane (l’indiano Isaac Cleemis Thottunkal, allora 53enne) al più anziano (il cardinale tedesco Walter Kasper che compì 80 anni poco dopo il giorno della fine del pontificato di Benedetto XVI, il 28 febbraio), si trattengono in Sistina soltanto Marini e il cardinale maltese Prospero Grech, ultraottantenne, incaricato di illuminare gli elettori con un’ultima meditazione. Dopo mesi difficili, la curia romana vessata dagli scandali interni, Grech ricorda che delle persecuzioni mosse «da alcuni media che non amano la Chiesa», se false, «non bisogna farne caso». Ma, ammonisce, «quando di noi si dice la verità, allora bisogna umiliarsi di fronte a Dio e agli uomini e cercare di sradicare il male a ogni costo, come ha fatto, con grande suo rammarico, Benedetto XVI».
Certo, dice, la crisi presente «si supererà». «Ma anche un raffreddore bisogna curarlo bene perché non si sviluppi in polmonite». Per Grech la strada è segnata. La brace della fede può ancora risorgere grazie «ai milioni di fedeli semplici che sono lontani da essere chiamati teologi, i quali, dall’intimità delle loro preghiere, riflessioni e devozioni, possono dare profondi consigli ai loro pastori. Sono questi che distruggeranno la sapienza dei sapienti e annulleranno l’intelligenza degli intelligenti».
Parole come fuoco per le gerarchie raccolte in Sistina in un grande silenzio. Tutti i cardinali sembrano consapevoli di una cosa: alla Chiesa serve un nuovo inizio. Ripartire dai semplici, dagli ultimi, dai poveri di spirito.
Grech e Marini lasciano insieme la Sistina. Fuori piove, a tratti grandina. È un marzo freddo nella capitale, scosso da temporali anche furenti. I quotidiani da giorni danno come favorito Angelo Scola, arcivescovo di Milano, italiano che si dice sia poco amato dai curiali che gli preferirebbero il brasiliano Odilio Scherer, arcivescovo di San Paolo del Brasile e membro della commissione di vigilanza dello Istituto per le Opere di Religione. Ma quanto i due siano effettivamente i candidati di due mondi opposti — riformatori e curiali — nessuno sa dirlo. La sensazione è piuttosto che entrambi siano vittime di gruppi di pressione che oltre i loro stessi intendimenti usano i loro nomi nel tentativo di resistere al cambiamento ormai in atto.
Sotto gli affreschi di Michelangelo sono passate le sei della sera quando le penne dei cardinali sfiorano per la prima volta il piccolo foglio di carta sul quale, sotto la dicitura “Eligo in Summum Pontificem”, sono invitati a esprimere la propria preferenza. Spetta al cardinale Giovanni Battista Re, vice decano del collegio, declamare ad alta voce lo scrutinio. Il microfono non si può usare per non far trapelare fuori dalla Sistina il conteggio dei voti e così, come racconta Andrés Beltramo Alvarez in “Credo. Retrato interior del cardenal Juan Sandoval Iñiguez”, Re affida il compito di megafono a un porporato messicano, Juan Sandoval Iñiguez, dotato di voce potente. «Sandoval venga e canti», dice Re sorridendo. E Sandoval canta.
Impossibile violare i segreti del conclave. Ma da quel poco che è trapelato a singhiozzi negli ultimi mesi sembra che già al primo scrutinio le sorprese non manchino. «Fra i cardinali si è diffuso un sentimento “anti-italiano” che no so da dove provenga e non condivido, ma che è dilagato persino tra i porporati italiani», dice a Vatican Insider il cardinale peruviano Juan Luis Cipriani Thorne, arcivescovo di Lima. E, infatti, secondo quanto scrive l’informata giornalista argentina Elisabetta Piqué, corrispondente de “La Nación” e amica del Papa da oltre un decennio, in “Francesco. Vita e rivoluzione” (Lindau), Scola è sì il più votato, ma a ruota segue un nome inaspettato, quello di Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. Dice: «Bergoglio ha ottenuto circa 25 voti. Scola, invece, è quasi a quota 30». Poi, certo, altri nomi, ma nessuno con risultati significativi.
Dunque, con Scola c’è Bergoglio. Il più votato insieme a Ratzinger al conclave del 2005 torna a essere protagonista nel 2013, per la maggior parte degli osservatori sorprendentemente. Mentre fuori dai giochi è da subito il peso di Roma, la curia. Un mondo che temeva Scola, e che mai avrebbe immaginato l’ascesa dell’arcivescovo di Baires, colui che, non a caso, più di altri aveva dovuto soffrire in passato proprio per colpe curiali. Alcuni esponenti del Vaticano, infatti, con l’appoggio anche della nunziatura apostolica in Argentina, negli anni passati bloccavano sistematicamente i candidati all’episcopato avanzati dalla Conferenza episcopale argentina, guidata proprio da Bergoglio. Questi veniva accusato di non difendere la dottrina, di compiere gesti pastorali troppo audaci, di non discutere pubblicamente con il governo di turno in modo più deciso. Lo criticavano, anche, perché battezzava i bambini nati al di fuori del matrimonio.
La cena del 12 marzo è frugale nel convitto di Santa Marta. La notte trascorre tranquilla. Ancora regna molta incertezza. Il 13 mattina piove su Roma. Fra le 6.30 e le 7.30 i cardinali fanno colazione. Alle 7.45 sono tutti nella Cappella Paolina per la Messa. Poi in Sistina, per il secondo scrutinio, il primo della giornata.
Bergoglio è seduto fra il cardinale brasiliano Claudio Hummes, suo vecchio amico, e il cardinale portoghese José da Cruz Policarpo. Guardando l’altare maggiore della Sistina, siede a sinistra, in seconda fila. Dice il cardinale di Vienna Christoph Schönborn: «Bergoglio era seduto nell’ultima curva della Sistina. Era il prescelto. Ho ricevuto almeno due segni forti: non posso raccontare quello avvenuto nel conclave e questi segni del Signore mi hanno dato l’indicazione che era lui».
I segni divini. Le parusie dal cielo. Per il cardinale di Lione Philippe Xavier Ignace Barbarin, questi messaggi arrivarono non durante bensì prima del conclave stesso, durante le congregazioni generali. Spiega: «Bergoglio parlò con insistenza della necessità che la Chiesa “esca fuori” da se stessa. Egli ha detto che la Chiesa è malata, che deve prendersi cura di se stessa. Il suo breve discorso ha colpito tutti. Ha detto testualmente: “Ho l’impressione che Gesù è stato rinchiuso all’interno della Chiesa e che bussa perché vuole uscire, vuole andare via”».
Le due votazioni del mattino passano veloci. Sono le 11.39 quando dal comignolo della Sistina esce una grande fumata nera. Nessuno ha raggiunto ancora i 77 voti. Bergoglio però, è ormai in vantaggio. Si ritiene, infatti — così ancora Piqué — , che sia nella seconda che nella terza votazione della mattina del 13 marzo egli sia stato il più votato, raccogliendo più di 50 voti. E che, contestualmente, la candidatura di Scola si sia raffreddata, arrivando in breve tempo a decadere.
A pranzo diversi cardinali europei fanno capire di essere dalla parte di Bergoglio. Un segnale chiaro: sono anche gli europei, e non soltanto parte degli statunitensi come tutti i media hanno declamato nelle ore precedenti, i veri “Kingmaker” del porporato argentino. Beninteso, lui non fa nulla per farsi votare. Ma ormai la corrente scorre inarrestabile in suo favore. Anche Scola invita all’unità, di fatto firmando la resa. Fra i più attivi pro Bergoglio è Oscar Rodriguez Maradiaga, honduregno, arcivescovo di Tegucigalpa. È al quotidiano tedesco “Koelner Stadt-Anzeiger” che lo stesso Maradiaga dà conto del suo attivismo dopo che, prima del conclave, si erano diffuse voci sui presunti problemi ai polmoni di Bergoglio. Il cardinale riferisce di aver interrogato in proposito Bergoglio durante un pranzo: «Gli ho chiesto se era vero che aveva soltanto un polmone e che fosse cagionevole di salute. Lui ha cominciato a ridere e ha detto: “Ho avuto una ciste nella parte alta del polmone sinistro, è stata tolta ed è andata bene”. A questo punto mi sono alzato e sono andato di tavolo in tavolo a dire: quelli di voi che dicono che Bergoglio ha un polmone solo sono sulla strada sbagliata».
Alle sei di sera ancora non c’è nessuna fumata. L’attenzione dei media è tutta per un gabbiano che si posa sul comignolo della Sistina. Su twitter impazza l’hastag #habemusbird. In pochi minuti il gabbiano ha anche un account che si chiama @SistineSeagull. Ma ciò che nessuno sa è che a Buenos Aires è proprio il gabbiano a svelare ai ben informati che la strada è segnata, lo Spirito ha scelto un argentino. Racconta Ana Betta de Berti, pittrice amica di Bergoglio che ha dipinto un’immagine della “Madonna che scioglie i nodi” di cui il futuro Papa divenne devoto durante una permanenza in Germania: «Quando vedemmo sul comignolo della Sistina “una gaviota de plumas color plata” — un gabbiano piuma d’argento — capimmo che lo Spirito aveva baciato il nostro Paese. Baires s’affaccia sul Rio de la Plata, il Fiume dell’argento. Quel gabbiano non poteva essere lì per caso».
Secondo alcun osservatori già alla quarta votazione Bergoglio sfiora i 77 voti necessari. Ormai è vicino all’elezione. Ma alla quinta votazione qualcosa s’inceppa. Durante lo spoglio ci si accorge che nell’urna c’è un foglietto in più. Un cardinale, racconta Piqué, in sbaglio ha deposto nell’urna un foglietto bianco in più. La votazione viene annullata. Si deve procedere a una sesta votazione. Sarà lo stesso Bergoglio, incontrando il 16 marzo in Vaticano i giornalisti, a dire che quando i voti in suo favore avevano superato i due terzi c’era stato un grande applauso. Ma che poi, nel proseguo dello scrutinio, egli aveva avuto il tempo di pensare ai poveri e all’idea di chiamarsi Francesco. Segno che i voti ricevuti sono stati nell’ultima votazione ben più dei 77 richiesti, si dice addirittura oltre 90.
«Accetti la tua elezione canonica a Sommo Pontefice?», gli chiede il cardinale Giovanni Battista Re.
«Io sono un peccatore, ma confidando nell’infinita misericordia e nell’infinita pazienza di Nostro Signore Gesù Cristo, in spirito di penitenza, accetto», risponde Bergoglio. Che poi dice di volersi chiamare Francesco, come il Santo d’Assisi, povero fra i poveri.
Accompagnato da un sacerdote Bergoglio si chiude nella stanza delle lacrime. Racconta a Tg2Dossier e a “Terre d’America” Hummes: «È andato a vestirsi da papa nell’antica sacrestia della Cappella Sistina e lì ha iniziato a distendersi; da subito ha compiuto gesti significativi; non ha indossato il mantello più solenne, non ha voluto la croce d’oro. Anche le scarpe rosse, non le ha messe, è rimasto con le sue; la stola ha detto di volerla usare soltanto per la benedizione. È tornato nella cappella così, spoglio, vestito con semplicità, con le scarpe nere con cui era arrivato da Buenos Aires. C’era lì un trono dove si doveva sedere per il saluto come prevede il cerimoniale; ma è rimasto in piedi, ha abbracciato i cardinali uno ad uno con una spontaneità meravigliosa». Era già Francesco che agiva.