VARIE 11/3/2014, 11 marzo 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - IL JOBS ACT DI RENZI E L’OPPOSIZIONE DI CAMUSSO E SQUINZI
MILANO - Uno choc per rilanciare il Paese. Uno choc che passa dalla lotta alla disoccupazione e dal taglio alle tasse per almeno 10 miliardi di euro. Un piano pensato per spingere i consumi e rilanciare il lavoro. Matteo Renzi lo chiede da quando è diventato segretario del Pd e lo promette da quando, poche settimane fa, è salito a Palazzo Chigi al posto di Enrico Letta. Adesso tutto passa per il Jobs Act che verrà presentato domani al Consiglio dei ministri. Un piano a cui Renzi tiene così tanto da aver imposto il silenzio assoluto a tutti i suoi collaboratori. Ci hanno lavorato in tanti, da Roma a Milano, ma solo in pochi avrebbero visto la bozza completa che sarà presentata al governo. Anche perché dopo il richiamo dell’Unione europea che ha messo sotto osservazione i conti pubblici potrebbe essere necessaria qualche ulteriore limatura. Eppure il documento ha diversi ispiratori, da Tito Boeri a Pietro Garibaldi, da Stefano Sacchi a Marco Leonardi, da Roberto Perotti a Pietro Reichlin: economisti e politologi che hanno dato il loro contributo nelle materie di competenza. E non poteva essere diversamente visto che il Jobs Act è imperniato sui cinque punti: i tagli alla spesa, gli ammortizzatori sociali, il contratto unico di lavoro, il taglio dell’Irpef con detrazioni fiscali fisse e l’agenzia unica per il lavoro.
Giù l’Irpef con l’aumento delle detrazioni.
Il piano Renzi punta a rendere più pesanti le buste paga dei dipendenti. Soprattutto per i redditi fino
a 15mila euro. L’idea che verrà presentata in Consiglio dei ministri non passa per il taglio nominale dell’aliquota, ma per l’aumento delle detrazioni fisse: un’operazione che porterebbe l’aliquota marginale a scendere dal 30 al 23%. La proposta prevede di mantenere a 8mila euro la soglia sotto la quale non si pagano le tasse (le detrazioni spettanti infatti azzerano il debito d’imposta) e istituire una detrazione fissa (indipendente dal reddito) di 1.840 euro per redditi imponibili compresi tra 8 e 15mila euro. Oltre questa soglia, le detrazioni si ridurrebbero linearmente, fino a essere pari a zero per i redditi oltre i 55mila euro. Il costo stimato per le casse dello Stato è di circa 5-7 miliardi con un risparmio fiscale per un lavoratore dipendente con un reddito imponibile di 15mila euro di circa 450 euro annui. L’operazione sarebbe limitata ai soli dipendenti attivi con l’esclusione dei pensionati e avrebbe l’obiettivo di incentivare la partecipazione alla forza lavoro e far emergere il sommerso. Per gli autonomi, invece, sarebbe più opportuno agire sull’Irap. Con 10 miliardi a dispozione le detrazioni potrebbero essere ancora più corpose con risparmi fino a 800 euro l’anno per redditi di 15 mila euro.
Cambiano cassa integrazione e ammortizzatori sociali.
E’ il cuore della riforma promessa da Renzi anche perché è quella che meno rischia di essere rivista dopo il richiamo della Ue. Secondo l’ideatore del Piano, Stefano Sacchi, le modifiche sarebbero a costo zero perché gli ammortizzatori sociali verrebbero finanziati dalla progressiva scomparsa della cassa integrazione in deroga. Si tratta della Naspi: un sussidio di disoccupazione universale per tutti coloro che perdono il lavoro, compresi i circa 400mila collaboratori a progetto che oggi non hanno alcun sostegno. Il sussidio spetterà a tutti coloro che perdono il posto e hanno lavorato almeno tre mesi. La Naspi durerà la metà dei mesi lavorati negli ultimi 4 anni per un massimo di due anni; al massimo sei mesi, invece, per gli atipici (nella presunzione che oltre l’anno di lavoro si configuri un contratto di lavoro subordinato e non una semplice collaborazione). L’entità del sussidio sarà per tutti nell’ordine dei 1.100-1.200 euro mensili all’inizio del periodo di copertura per poi calare fino a 700 euro.
Con il livello di disoccupazione attuale, però, è possibile che neppure due anni bastino a trovare lavoro. L’idea è quindi quella di aggiungere un assegno di disoccupazione a tutela di chi esaurisce la Naspi: un sussidio che dovrebbe essere garantito solo a chi si trova in condizioni di effettivo bisogno sulla base dell’Isee. Le risorse andrebbero reperite nella razionalizzazione della Cassa integrazione ordinaria e straordinaria, mentre la Cassa in deroga verrebbe progressivamente assorbita nel Naspi. Le resistenze più forti al progetto arrivano dalle parti sociali ancorate su un’impostazione lavorista del sussidio, anche quando c’è il rischio di tenere in piedi rapporti di lavoro destinati a morire. Impossibile che nel piano per il lavoro venga inserito il Reddito di inclusione sociale attiva (Reis): il sostegno per le famiglie povere costerebbe 7 miliardi di euro l’anno. Possibile, invece, che si pensi di partire con il sostegno a 400mila famiglie con una spesa di circa 1,5 miliardi di euro l’anno. Gli economisti che hanno lavorato al piano suggeriscono, però, al premier di mettere in agenda un percorso per arrivare al Reis entro la fine della legislatura.
Contratto unico di lavoro.
Un’altra riforma a costo zero è la riduzione della giungla dei contratti di lavoro: oggi ne esistono almeno 40. L’idea è di arrivare al contratto unico a tempo indeterminato e a tutele crescenti. Senza quindi le tutele previste dall’articolo 18 per almeno i primi tre anni: si rinuncia così ai ricorsi giudiziali in caso di licenziamento - a meno che non si tratti di discriminazione o mobbing - anche perché il lavoratore avrebbe immediatamente accesso al Naspi. Si pensa anche a un risarcimento proporzionale al progredire del contratto. Sul tavolo anche il contratto a tempo determinato che sarebbe però limitato ad alcuni settori, come i lavoratori stagionali, mentre è più difficile che si arrivi al salario minimo legale: ci sono da superare le resistenze dei sindacati che temono la fine dei contratti nazionali. Tra l’altro Renzi sta già incontrando le resistenze dei sindacati sul fronte della riforma della Cassa integrazione: la rinuncia - momentanea - al salario minimo potrebbe quindi diventare merce di scambio per avere il via libera alla Naspi in cambio della cassa in deroga. Di certo il governo proverà a superare tutti i difetti della riforma Fornero togliendo le scuse alle aziende che ancora non assumono.
Agenzia unica e garanzia giovani.
Nel Jobs Act è previsto un nuovo codice del lavoro e l’Agenzia unica federale che servirà a sviluppare la "Garanzia per i Giovani" chiesta dalla Ue che ha invitato tutti gli Stati membri ad assicurare ai giovani con meno di 25 anni un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato, tirocinio o altra misura di formazione, entro 4 mesi dall’uscita dal sistema di istruzione formale o dall’inizio della disoccupazione. In generale l’obiettivo è quello di offrire una risposta ai ragazzi e alle ragazze che ogni anno si affacciano al mondo del lavoro dopo la conclusione degli studi. Considerato lo specifico contesto italiano tale iniziativa prevede, inoltre, anche azioni mirate ai giovani disoccupati e scoraggiati, che hanno necessità di ricevere un’adeguata attenzione da parte delle strutture preposte alle politiche attive del lavoro.
Le coperture alla spesa.
Complessivamente per portare avanti le riforme del Jobs Act servirebbero una decina di miliardi di euro l’anno in attesa di completare la razionalizzazione dell’istituto della Cassa integrazione. Il piano di tagli partirà per forza dal dossier Cottarelli che giace al ministero dell’Economia. I più ottimisti parlano di un taglio della spesa pubblica di 10 miliardi di euro l’anno, più realisticamente il governo Letta aveva indicato nel documento Impegno Italia risparmi per 13 miliardi in due anni. A questi si possono aggiungere 1,5 miliardi stimati dal rientro di capitali e 3-5 miliardi di proventi in arrivo dal risparmio interessi sul debito pubblico con il calo dello spread, ormai stabilmente sotto quota 180 punti. Numeri che ancora non sono conteggiati nella Legge di Stabilità 2014 e che - nonostante i richiami della Ue - potrebbero dare ossigeno alla casse dello Stato. A questo si aggiunge la speranza di una crescita un po’ più robusta delle attese con una riduzione del deficit intorno al 2,7% del Pil che si tradurrebbe in altri 5 miliardi di euro. Tutti i risparmi in più verrebbero impiegati per il reddito di sostegno alle famiglie e per aumentare le detrazioni fiscali.
IL NODO COPERTURE
REPUBBLICA.IT
RAFFAELE RICCIARDI
MILANO - Metterli tutti sull’Irap o sull’Irpef, dare sollievo in larga parte alla busta paga dei lavoratori o preferire l’agevolazione degli imprenditori tartassati dal Fisco, o ancora optare per un salomonico fifty-fifty. Qualunque destinazione prendano, il governo Renzi si è impegnato a mettere 10 miliardi sul tavolo dell’alleggerimento del cuneo fiscale. Risorse che si uniscono a quelle necessarie per il piano scuola, per la casa e per sostenere le misure che verosimilmente entreranno nel Jobs Act.
Ma il nodo è sempre quello: da dove arrivano questi soldi? Fonti dell’esecutivo hanno confidato alle agenzie che "ormai ci siamo" nel reperimento delle risorse.
Ormai da tempo si afferma che proverranno in larga parte dalla spending review del commissario straordinario Carlo Cottarelli, che ha finito la prima ricognizione tecnica nel massimo riserbo e sarà chiamato a breve a portare i frutti del suo lavoro di taglio. Ma nella migliore delle ipotesi si potranno raccimolare 5 miliardi (che significa alzare già l’asticella di 2 miliardi rispetto alle previsioni iniziali), cifra oggi confermata dalle fonti di governo, e quindi Renzi è solo a metà dell’opera. C’è poi da considerare che già l’esecutivo di Enrico Letta aveva stanziato 2,5 miliardi, nella Stabilità del 2014, che porterebbero l’onere sulle spalle di Renzi a quota 7,5
se si conteggiassero insieme ai dieci ora promessi.
La ricetta del ministro delle Finanze, Pier Carlo Padoan, prevedeva il ricorso a misure una tantum per cercare di sbarcare il lunario nel 2014, attendere che i tagli alla spesa divengano strutturali e più consistenti e quindi dare copertura stabile alla riduzione di gettito determinata con la rimodulazione del cuneo. Ma quest’idea è finita su un percorso pericoloso ed accidentato. In primis Bruxelles, dove si storce il naso ogni qualvolta un taglio strutturale viene coperto con misure che tali non sono, ha stoppato l’idea di ricorrere ai fondi europei: ci sono 12 miliardi sbloccati dalla maggior partecipazione comunitaria alle spese condivise, ma sono già impegnati per le opere infrastrutturali e di lì non si possono muovere.
Anche le manovre per il rientro dei capitali (la cosiddetta voluntary disclosure) sono più articolate del previsto: il decreto originario è destinato a sdoppiarsi per lasciar spazio a un disegno di legge. L’iter parlamentare, anche se l’esecutivo accelerasse al massimo i tempi, è comunque più lungo. Il gettito - che pure nella relazione tecnica non è menzionato in quanto aleatorio - sarebbe consistente (si parla di miliardi), ma gli effetti potrebbero arrivare fuori tempo massimo rispetto alle necessità. Ulteriore conferma in questo senso arriva dal fatto che le ultime dichiarazioni di fonti del governo parlano di "problemi tecnici" in merito a questo provvedimento.
Ecco allora che si fanno largo idee alternative, in attesa di registrare nel Def del prossimo aprile un beneficio derivante dal calo dello spread che si può quantificare in 3 miliardi, in parte spendibili per il cuneo. In primo luogo si potrebbe spalmare l’intervento sul cuneo fiscale in tempi diversi, adattando questo al reperimento delle risorse e non viceversa. Si potrebbe partire così con i soldi già garantiti da Cottarelli, per poi cercarne altri o con una tassa sulle rendite finanziarie o con altre misure straordinarie. Tra queste, stanno guadagnando credibilità le ipotesi di tagli alla spesa militare (con la voce degli F35 che ha guadagnato l’onore delle cronache più volte). L’Italia prevede 14 miliardi di esborsi in tre lustri, pur avendo già ridotto il programma di acquisto a 90 aerei; si potrebbe limare ulteriormente. Ma per questa misura - che pure sarebbe popolare - se ne studiano altre che riguardano il taglio delle pensioni di reversibilità o alle indennità di accompagnamento, come riporta il Corsera. Capitoli che pesano per una quarantina di miliardi sul bilancio statale, ma che difficilmente potranno essere toccati senza generare grande dissenso sociale.
(11 marzo 2014)
LA CONTRARIETA’ DI CGIL-CISL-UIL
ROMA - Nel giorno in cui incassa l’approvazione degli articoli più importanti della riforma elettorale, e alla vigilia della presentazione a Palazzo Chigi, Matteo Renzi è costretto a difendere il suo jobs act dall’attacco congiunto di industriali e sindacati. "Per la prima volta domani mettiamo in tasca agli italiani una significativa quantità di danari. Sui penultimatum di Squinzi e l’eventualità di sciopero della Camusso ce ne faremo una ragione", replica il premier.
Dopo il duro scontro di ieri con la leader della Cgil e il presidente di Confindustria, stamane a criticare il piano per l’occupazione messo a punto dal presidente del Consiglio sono i segretari di Uil e Cisl, Luigi Angeletti e Raffele Bonanni. "Il Jobs act non crea posti di lavoro" i quali si creano "con una buona economia", attacca quest’ultimo, che mette anche in dubbio la scelta del disegno di legge. "Il ddl passa per le commissioni e poi in Parlamento, senza discutere con nessuno. Auguri", sottolinea.
"La posizione di Renzi verso le parti sociali - rincara Angeletti - la definirei l’invenzione di un avversario. Un’operazione che forse politicamente può fare effetto e rivelarsi utile. Ma siccome il sindacato non ha fatto nulla contro Renzi, la scelta d’inventarsi come oppositore il sindacato mi sembra si possa attribuire a mera tattica politica".
Sulla polemica torna anche Squinzi. "Lui se ne farà una ragione noi però abbiamo una ragione sola, che abbiamo in mente precisa, che è il bene del nostro Paese", replica il leadeer degli industriali al commento di Renzi.
Nel dibattito interviene anche il segretario della Fiom Maurizio Landini, indicato come nuovo referente del presidente del consiglio nel mondo sindacale. "Sospetto" dal quale il leader dei metalmeccanici prende le distanze, anche se non rinuncia a smarcarsi ancora una volta dalla Cgil e dalla sua stroncatura del jobs act. "Il mio problema - afferma ad Agorà - non è polemizzare ma dire come deve essere cambiato il Paese. A questo punto io non faccio minacce preventive". "Matteo Renzi - aggiunge - rappresenta un elemento di novità e i voti che ha preso nel corso delle primarie indicano che c’è una grande parte del paese che desidera cambiare. E in questi ultimi 20 anni è stato cambiato poco. Io il Paese lo voglio cambiare".
QUANTO VALE IL CUNEO
MILANO - "Il valore medio del cuneo fiscale e contributivo per i lavoratori dipendenti è pari al 49,1% del costo del lavoro". Lo riferisce l’attuale presidente dell’Istat, Antonio Golini, in Commissione finanze del Senato, basandosi su un modello di microsimulazione sulle famiglie che si basa su dati 2012. "I contributi sociali - riferisce ancora - rappresentano la componente più elevata del cuneo fiscale (28% a carico del datore di lavoro e 6,7% a carico del lavoratore". In busta paga, inoltre, "ai lavoratori vengono trattenute le imposte sul reddito (14,5%) inclusive dell’Irpef e delle addizionali regionali e comunali".
Golini ha notato anche che "i percettori di un solo reddito da lavoro dipendente ricevono in media, nel 2012, una retribuzione netta di 16.153 euro circa all’anno, di poco superiore alla metà del valore medio del costo del lavoro (31.719 Euro)". A livello familiare, nel 2010, l’aliquota media del prelievo fiscale è pari al 19,2%, in lieve crescita rispetto all’anno precedente (+0,3 punti percentuali). Poiché il principio della progressività è applicato a livello individuale, una famiglia con un solo percettore paga, a parità di reddito familiare e di deduzioni e detrazioni, un’aliquota media più alta rispetto a un’altra in cui lo stesso reddito sia guadagnato da più persone.
L’Istat nota poi che nel complesso, mentre tra il 2000 e il 2012 la pressione fiscale nei 27 paesi dell’Ue è diminuita complessivamente
di 0,5 punti percentuali, in Italia è aumentata di quasi 3 punti, l’incremento più elevato se si escludono i casi di Malta e Cipro. La pressione fiscale nel Belpaese si atteta nel 2013 al 43,8% del Pil (44% nel 2012). Pessime notizie arrivano poi per le famiglie: nel 2012 il potere d’acquisto delle famiglie è calato quasi del 5% (4,7%). Una caduta "di intensità eccezionale" prodotta dall’aumento del prelievo fiscale (Imu, contributi sociali, ecc) che ha "notevolmente contribuito alla forte contrazione del reddito": -2% quello "disponibile" 2012.
E mentre il governo Renzi pensa a una riduzione del carico fiscale, che finirà sul tavolo del Consiglio dei ministri di domani insieme al Jobs Act, la Uil spiega come con la busta paga di marzo arrivi un antipasto indigesto da pagare con gli acconti e i saldi delle addizionali regionali e comunali Irpef. "Con la prossima busta paga, infatti, i lavoratori dipendenti e i pensionati troveranno l’amara sorpresa di dover pagare mediamente 97 euro complessivi tra saldo e acconto dell’Irpef sia Regionale, sia Comunale, pari al 29,3% in più rispetto al mese di marzo dello scorso anno", spiega Guglielmo Loy. In particolare per l’Irpef regionale si pagheranno mediamente 59 euro, a fronte dei 49 euro dello scorso anno (+ 20,4%), mentre per l’Irpef comunale 38 euro, a fronte dei 26 euro dello scorso anno (+46,1%).
(11 marzo 2014)
HUFFINGTON POST
Ascoltare tutti, decidere da soli, ma senza scontentare nessuno. Così Matteo Renzi pensa di chiudere il pacchetto di misure per la crescita che si prepara ad annunciare domani. Privilegiando alcuni da un parte, altri dal lato opposto. Anche per questo le tre misure più attese – taglio del cuneo fiscale, Jobs Act, e rimborso dei debiti della Pa – viaggiano tutte su binari paralleli.
Sul cuneo fiscale la partita sembra quasi chiusa. La conferma arriva nel primo pomeriggio: "Stiamo ragionando sulle coperture, ma posso dire che ci siamo", spiegano fonti di governo sottolineando che l’intervento sarà quasi tutto sull’Irpef tranne "qualche intervento selettivo", come sgravi per chi assume, a vantaggio delle imprese. A nulla sarebbe valso, quindi, il duro richiamo di Giorgio Squinzi oggi sul Corriere della Sera. Anche se le imprese – e questo spiega l’intreccio tra i vari provvedimenti – non rimarrebbero completamente a bocca asciutta.
Jobs Act in ddl. Ai deputati Pd Matteo Renzi ha spiegato in mattinata che il governo ha scelto il disegno di legge delega come veicolo normativo per il Jobs Act. Un’ipotesi già anticipata dal ministro del lavoro Poletti, che la scorsa settimana aveva definito “pericoloso” l’utilizzo di un decreto per il pacchetto di misure. La scelta del ddl dilata, e di molto, i tempi del provvedimento. Rinviando di fatto la reale entrata in vigore di molti mesi, se non anni, se si pensa che la delega fiscale, partita addirittura con il governo Monti nel 2012, ha ricevuto il via libera della Camera soltanto due settimane fa. "Il ddl passa per le commissioni e poi in Parlamento, senza discutere con nessuno. Auguri", ha commentato il leader Cisl Raffaele Bonanni non nascondendo il proprio disappunto.
Le misure. Ma il compromesso trovato dall’esecutivo sarebbe quello di spacchettare il provvedimento. Da un lato le misure con il riordino degli ammortizzatori sociali, la cancellazione della cassa in deroga, l’introduzione del nuovo sussidio universale di disoccupazione e la ridefinizione complessiva, e riduzione, delle numerose forme di figure contrattuali atipiche che alimentano la precarietà. Dall’altro misure ad immediata applicazione, inserite in decreto, con le modifiche al contratto di apprendistato rendendo più facile, ed economico, assumere giovani per le aziende e l’introduzione del nuovo contratto di inserimento a tutele crescenti per incoraggiare le nuove assunzioni. Un contratto a tempo indeterminato, sul modello Boeri-Garibaldi, in cui la neutralizzazione dell’articolo 18 verrebbe compensata da un indennizzo obbligatorio (nell’impianto originario pari a 5 giorni di lavoro per ogni mese lavorato).
Morando: "Soluzione vicina per i debiti Pa". Così, con il taglio per i lavoratori e la flessibilità per le imprese, Renzi spera di non scontentare nessuno. Anche perché sul piatto, per gli imprenditori, è in dirittura di arrivo anche il provvedimento per il pagamento dei debiti Pa: “Siamo vicini ad avere un testo, le soluzioni non sono ancora perfette ma arriveranno in tempo per domani. Lo schema prevede il coinvolgimento delle banche e della Cassa Depositi e prestiti". Un intervento, peraltro, molto importante anche nell’economia complessiva del pacchetto di misure, visto che il governo – spiegano fonti dell’esecutivo - mette in conto almeno un miliardo dal possibile aumento di gettito Iva. Risorse più che mai preziose per coprire una parte dei 10 miliardi richiesti per il taglio del costo del lavoro.
Damiano (Pd) e Sacconi (Ncd): bene il ddl. Ma se la scelta del lungo iter parlamentare scontenta chi si aspettava, già da subito, novità ad immediata applicazione, soddisfa in compenso i partiti della maggioranza, che avranno così la possibilità di avere in mano la regia sui lavori del provvedimento. “Ci sarà un iter parlamentare lungo e avremo più tempo per discuterne”, spiega ad Huffpost il democratico Cesare Damiano, soddisfatto per la scelta del premier. “Si è parlato di contratto unico di inserimento ma ancora non si sa con quali caratteristiche. Io per esempio sarei favorevole a modifiche per il contratto di apprendistato entro i 29 anni, e oltre quel tetto si potrebbe utilizzare il nuovo contratto di inserimento”. Un doppio binario condiviso anche da Maurizio Sacconi, Ncd. “Credo che l’impostazione sia quella giusta, con misure urgenti per incoraggiare la assunzioni direttamente applicabili, e un riordino più complessivo affidato alla discussione del Parlamento”.
I SINDACATI CONTRO
HUFFINGTON POST
Ormai è quasi una lotta senza quartiere. Il rapporto, se mai ce n’è stato uno, tra i grandi sindacati confederali e il presidente del Consiglio Matteo Renzi è sempre più logoro. È evidente il timore delle associazioni di categoria di essere messe all’angolo e non contare più nulla. Questo proprio nel momento in cui il premier si appresta a tagliare le tasse dei lavoratori, senza convocare i loro rappresentanti. Mettendo di fatto in soffitta l’antica concertazione.
Allora viene quasi automatico chiamare "nuovo" Pd il partito guidato da Renzi come il new labour di Tony Blair. Il primo ministro progressista che conquistò il suo partito e poi governò il Regno Unito per 10 anni andando contro i veti dei sindacati. Con cui Blair si scontrò appena arrivato al vertice del partito, facendo riformare la clausola IV dello statuto laburista, che proponeva la proprietà comune dei mezzi di produzione, ed eliminando così ogni elemento di comunismo e socialismo reale dal labour.
Renzi, come il suo esempio inglese, non ha peli sulla lingua. E domenica scorsa, nel salotto di Fabio Fazio, è tornato a infierire sui sindacati con parole che possono essere parafrasate maliziosamente con un verso del suo illustre concittadino Dante Alighieri: "Non ragioniam di lor, ma guarda e passa". La leader della Cgil Susanna Camusso e quello della Cisl Raffaele Bonanni lo hanno capito bene. Tanto che i due non lasciano passare un giorno senza lanciare un attacco contro il primo ministro.
Ma davanti alla forza e al decisionismo di Renzi, proprio Bonanni ha capito che l’unico modo per farsi sentire è unirsi nella lotta. "Il perire della Cgil - ha detto - corrisponde al perire nostro". Il segretario della Cisl attacca "i populisti della politica" e lancia un appello alla coesione: i sindacati possono "essere diversi sì, ma non avere l’esigenza di staccarsi - ha spiegato -. Bisogna tenere in piedi una relazione comune per non dare il fianco ai nemici del sindacato".
E contro il modus operandi scelto dal premier sul jobs act, Bonanni ha attaccato: "Renzi ha detto stamattina che sul Jobs act presenta un disegno di legge. Il disegno di legge significa che deve essere costruito il disegno, che poi passa per le commissioni, poi, se va bene, arriva in Parlamento e in tutto questo non si discute con nessuno. Auguri". Insomma, agli occhi dei sindacati era quasi meglio l’austero Mario Monti - che comunque li convocava anche se a cose già fatte - piuttosto che lo strafottente presidente del Consiglio democratico.
Non va giù nemmeno il legame che si sta instaurando tra Renzi e Maurizio Landini della Fiom. Dietro a questa relazione ’privilegiata’, è facile vedere come il premier voglia evidenziare la sua preferenza per un leader movimentista in contrapposizione con la conservazione rappresentata dalla triplice e dai suoi segretari.
Tanto che Camusso rispedisce al mittente l’accusa di "antichità": "Devo dire - ha spiegato - che per chi si è presentato al Paese con l’idea che avrebbe cambiato verso, avrebbe introdotto il nuovo e cambiato tutto, usa degli argomenti di una antichità straordinaria". "Nella nostra memoria - ha aggiunto il segretario della Cgil - penso che di governi che si sono presentati nella logica dell’attacco al sindacato ne abbiamo una lunga sequenza, anche se si è trattato di attacchi fatti con modalità diverse". "Ma in realtà - ha continuato - con una idea in fondo antica, quella di immaginare che si può prescindere dal lavoro e dalle sue forme organizzate quando si disegna la direzione del Paese. Questa è la cosa che colpisce di più in questi giorni". La sfida, appunto, non accenna a fermarsi.