Fulvio Abbate, Il Fatto Quotidiano 11/3/2014, 11 marzo 2014
VENDITTI, IL MITOLOGICO FONDATORE DI SE STESSO
Antonello Venditti è sempre più la vetta di se stesso, una voce e una faccia irrinunciabili, una sicura gemma del post-folklore capitolino e giallorosso. Vuoi sapere perché dico così? Se proprio ti interessa, ascoltami bene. La grande bellezza, nel senso del pregiato film di Sorrentino, merito o demerito dell’Oscar, ha già suscitato un’onda lunga di riflessioni, commenti e perfino tendenze: l’altro giorno, su un noto quotidiano progressista c’era modo di prendere nota di coloro che hanno contribuito al guardaroba dell’eroe cine-letterario Jep Gambardella, il protagonista, meglio, il doppio del regista, Toni Servillo, in una disfida tra sarti e stilisti: ti ho detto che la giacca rossa è mia! Sarà, ma l’abito scuro l’ho fatto io… E così via fino all’interrogativo esemplare su quanta Roma, quanta Urbe, quanto SPQR, quanto Fellini remix, quanti rigatoni “co’ la pajata” ci siano davvero nel film che ha ridato turgore all’orgoglio estetico nazionale, e qui poco importa che al sottoscritto l’Opera sia sembrata pura pro-loco d’autore, assimilabile come cartolina al “Caruso” di Lucio Dalla, cioè musica leggera per diportisti culturali, possibilmente stranieri, dunque già pronti a fare tappa in tutte le “location” dove il film ha preso vita, dal Fontanone del Gianicolo alle Terme di Caracalla. E così via fino al proverbiale cappello bianco di Antonello Venditti, il cantautore che appunto nel film appare come fondale mitologico vivente nei panni di se stesso, più che in cameo, semmai in un’ideale corniola da incastonare nell’anello destinato al dito del più gajardo Caligola o Totti.
DOBBIAMO ringraziare dunque ora SkyTg24, ora il Tg1 per averci offerto nei giorni scorsi alcuni flash di Antonello nostro, dove, in occasione del concerto tenuto per i 65 anni, c’è modo di apprezzare il suo pensiero su quanto Roma riesca a fare dono dei migliori mostri a se stessa o sono forse i mostri a prendere possesso dei Sette Colli? In buona sostanza, l’autore di Roma capoccia, mostrando il volto meditabondo e insieme scocciato che gli è proprio, s’interroga su quanto il pensiero di Sorrentino sia debitore a Roma del suo bestiario umano e sociale. La risposta definitiva, inutile fare finta di niente, piuttosto che nel vento, risiede nell’onnipresenza dei suoi proverbiali maxi Ray-Ban con “parasudore”. E per un istante, nel pieno di una pausa che sembra nascondere un pensiero lungamente ponderato (Venditti, se interpellato sull’universo mondo, è esemplare nel mostrarsi apodittico fino allo spasimo) proprio quei suoi occhiali sembrano assumere una statura immensa, più della giraffa dell’illusionista che appare sullo sfondo di Caracalla, più della giacca rossa di Servillo, e ancora, in un’ipotetica titanica lotta tra il panama di Jep e quello di Antonello c’è la quasi certezza che vittoria finale spetti all’uomo che disse che “il tempo non esiste se non nella scansione di quello che le canzoni hanno interpretato” (sic). Il prestigioso “Me cojoni” alla carriera è qui d’obbligo.
@fulvioabbate