Osvaldo De Paolini, Il Messaggero 11/3/2014, 11 marzo 2014
UN MILIARDO DALLO STATO ECCO IL CONTO DEI SINDACATI
«Il sindacato? La coperta di Linus della sinistra». «Non riescono, magari non per colpa solo loro, a rappresentare i ragazzi e le ragazze. E c’è da capirli, visto che il 75% dei loro tesserati sono pensionati». Ecco i sindacati nel pensiero recente di Matteo Renzi. Secondo il premier hanno solo un «sacco di soldi». E dunque, partire dai soldi è sempre un metodo infallibile se si vuole riformare qualcosa. E poiché Renzi si è impegnato a sfornare una riforma al mese fino a maggio, a mettere mano ai rapporti tra Pubblica amministrazione e sindacati ci penserà a cavallo dell’estate. Sempre che, cammin facendo, non cambi idea.
RAPPRESENTANZA INATTUATA
Il suo predecessore, Enrico Letta, si era vantato di aver cancellato, sia pure a partire dal 2017, il finanziamento pubblico dei partiti. Un gesto simbolico (un centinaio di milioni di euro l’anno) da tributare all’insostenibile pesantezza della sfacciataggine di alcuni. In cambio la democrazia italiana si incamminerà sulla via del finanziamento privato dell’attività politica. Dunque, resterà solo al sindacato l’esclusiva di un ricco e sontuoso finanziamento pubblico: 1 miliardo di euro almeno, che entra ogni anno nelle casse delle quattro organizzazioni sindacali (considerando Ugl in aggiunta a Cgil, Cisl e Uil) più rappresentative. O sedicenti tali, visto che l’accordo sulla rappresentanza giace inattuato per paura di contare davvero quanti lavoratori pagano ancora la quota associativa.
UN MILIARDO DI EURO
Un miliardo di euro. Slegato dall’attività tipica. È pur vero che questa espressione dice nulla, visto che nessuno ha mai letto un bilancio di un sindacato, non essendo tenuti a presentarli. Epperò 1 miliardo di euro al netto delle quote associative - che si suppongono sempre meno, tranne che tra i pensionati - non è poco trattandosi di un extra. Un miliardo di euro che non comprende le rendite dell’ingente patrimonio immobiliare (impossibile da quantificare), peraltro recuperato nei modi più creativi a spese di quello pubblico.
A questo punto qualcuno potrebbe osservare: ma chi dice che si tratti davvero di 1 miliardo, visto che nessuno conosce i loro bilanci? Anzi, si tratta di un calcolo prudenziale. Perché questa è solo la cifra che transita dai patronati e dai centri di assistenza fiscale (gli arcinoti caf) che fanno capo alle organizzazioni sindacali. E quando provi a fare domande sul tema, molte bocche si fanno storte, ma restano cucite.
IL PECCATO
Si storcono in virtù del fatto che patronati e caf svolgono un servizio ai cittadini, che perciò - dicono - deve essere remunerato dallo Stato. Già, peccato che non sia sottoposto a verifiche di alcuno sulla qualità effettiva del servizio. Nessun ministro del Lavoro o dell’Economia ha mai sollecitato gli enti vigilati - da Inps a Inail all’Agenzia delle Entrate - a formulare regolamenti e minacciare sanzioni a chi quel servizio non lo svolga con efficienza e senza conflitto di interessi.
600 MILIONI AI PATRONATI
Ma facciamo un po’ i conti prima di affrontare qualche criticità regolamentare. Circa 600 milioni sono i compensi - sottratti a un negoziato di mercato, ma garantiti da norme di legge o convenzioni stipulate dagli enti pubblici - che vengono incassati da patronati e caf per i servizi erogati. Il dato è stato aggiornato circa un anno fa da Giuliano Amato, incaricato dal governo Monti di preparare una «nota sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato». Nel dettaglio, si tratta di circa 430 milioni di stanziamento per i patronati e 170 milioni per i caf. Proprio tre delle quattro convenzioni caf sono in scadenza quest’anno all’Inps. Inutile dire quanto sia importante per il sindacato ottenere il rinnovo. Due anni fa furono proprio i tre segretari confederali di Cgil (Camusso) Cisl (Bonanni) e Uil (Angeletti) a prendere carta e penna per scrivere al ministro Elsa Fornero e sollecitare l’approvazione della bozza di convenzione Inps-caf. Nel mentre ciò accadeva, l’allora presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, venne considerato il «nemico numero 1» per avere chiesto di verificare la congruità dei compensi.
LA LENTE DELLA PROCURA
Qualche preoccupazione circa la correttezza del comportamento di alcuni caf era stata portata anche all’attenzione della Procura della Repubblica di Roma. Nella primavera del 2012 un esposto dell’Inps segnalava infatti la truffa milionaria di decine di caf che fornivano dichiarazioni false, le moltiplicavano anche per persone decedute e le reiteravano da più parti, con il solo scopo di ottenere compensi non dovuti. Curiosamente l’esposto non pare abbia prodotto indagini da parte della magistratura.
FINE DEL MONOPOLIO
Fin qui i 170 milioni per le attività dei caf destinate al rapporto tra cittadini ed enti previdenziali (determinazione dell’Isee, dichiarazioni sostitutive per invalidità civile, per ottenere detrazioni di imposta o per presentare dati reddituali collegati al diritto di erogazione della prestazione). Ma i caf ricevono compensi a carico dello Stato anche per l’elaborazione e la trasmissione dei modelli 730: 26 euro ciascuno. C’è voluta la Corte di Giustizia europea nel 2006 per rompere, almeno sulla carta e solo per la presentazione delle dichiarazioni dei redditi, il monopolio dei caf sindacali, ammettendo al servizio anche i professionisti abilitati, cioè i dottori commercialisti, gli esperti contabili e i consulenti del lavoro.
Non è finita. Ai 170 milioni per le prestazioni svolte nell’interesse degli istituti di previdenza, si aggiungono altre centinaia di milioni per l’attività fiscale. Bastano 10 milioni di dichiarazioni fiscali - in Italia ci sono 20 milioni di lavoratori dipendenti e 16 milioni di pensionati - per arrivare a 260 milioni. È però evidente che la cifra finale è ben superiore.
ZERO CONTROLLI
Poi si apre il capitolo patronati, con quell’altro tesoretto stimato in circa 430 milioni l’anno. In questo caso c’è una legge dello Stato (la 152 del 2010) che definisce ruolo e compensi delle strutture patronali. A distribuire la risorsa è ogni anno il ministero del Lavoro che attinge allo 0,226% del gettito dei contributi previdenziali obbligatori incassati da tutte le gestioni amministrate dall’Inps e dall’Inail. Circa 12 milioni di pratiche l’anno, più della metà rivolte a quelle del settore previdenza e infortuni sul lavoro. Peccato che non ci sia alcun regolamento che definisca e sanzioni la qualità delle attività patrocinate. Capita spesso che gli enti previdenziali debbano lavorare più volte le pratiche incomplete o errate fornite dai patronati. Ma è la quantità - non la qualità - delle pratiche che fornisce un punteggio finalizzato alla ripartizione della ricca torta.
TESSERAMENTO OCCULTO
Senza contare che le pratiche di patrocinio sono spesso occasione di tesseramento sindacale, soprattutto tra i pensionati. Qualche anno fa l’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, sollecitò l’Inps a ricordare ai suoi assistiti di «manifestare la permanenza della volontà» circa la trattenuta sindacale sull’assegno di pensione. Ma non scattò alcuna campagna informativa in tal senso. Sicché molti pensionati continuano probabilmente a pagare la quota associativa a loro insaputa.
Si arriva così molto vicini alla cifra di 1 miliardo di euro che arriva alle casse di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, in via diretta o indiretta, dal perimetro pubblico. Ci sarebbe anche da ricordare che ci sono società che forniscono servizi alla Pubblica amministrazione, e che sono a loro volta riconducibili alle organizzazioni sindacali. Un caso per tutti, ma non è l’unico, è quello di Eustema, una società Ict che fornisce servizi a Inps e Inail per non meno di 30 milioni l’anno. Si tratta di una società di proprietà della Cisl. Quante soggetti simili sono attualmente in circolazione?
ASSENZE GIUSTIFICATE
Ultimo, ma non per importanza, è il costo indiretto che grava sulla Pubblica amministrazione per le assenze per motivi sindacali e che si aggiunge al miliardo di cui sopra. Non si tratta di briciole. L’ultima rilevazione ufficiale resta quella elaborata da Amato per il governo Monti. I dati riportati in essa sono relativi all’anno 2010: ebbene, il costo complessivo annuo di questa voce è di circa 113 milioni. Ciò vuole dire che nel 2010 l’equivalente di 3.655 dipendenti pubblici sono stati pagati dalla Pubblica amministrazione anche se non hanno mai lavorato nel corso dell’anno, essendo stati assenti per motivi sindacali. In altre parole, un lavoratore pubblico ogni 550 svolge attività sindacale a spese della collettività.
LA RELAZIONE AMATO
Anche questo è finanziamento pubblico del sindacato. La relazione di Amato si poneva la domanda: «Quali sono le opzioni per ridurre questa spesa?». La prima ipotetica risposta era «quella di adottare nel pubblico la regola che prevale nel privato e cioè porre a carico del sindacato la retribuzione del dipendente chiamato a incarichi sindacali». È rimasta una ipotetica risposta.
Insomma, se i partiti hanno iniziato una auspicata e dovuta cura dimagrante, sarebbe doveroso che lo facessero anche le organizzazioni sindacali. Sarà la riforma che Renzi si riserva per il quinto mese del suo governo? Si vedrà.
Osvaldo De Paolini