Susan Dabbous, Avvenire 11/3/2014, 11 marzo 2014
I TRE ANNI CHE HANNO SPEZZATO LA SIRIA
«Era iniziata così, anche un po’ per sfida: vuoi vedere che organizziamo una manifestazione in poche ore? Beh ci siamo riusciti, era il 15 marzo del 2011». Shadi Abu Karam, 27 anni, siede in un caffè di Amman, mentre ricorda la prima protesta studentesca di Damasco del 2011, quando nessuno avrebbe mai pensato ai 140mila morti che ne sarebbero seguiti. «Chiedevamo riforme dopo quarant’anni di regime degli Assad, come in Libia, Egitto e Tunisia, con la differenza però che la nostra società è multiconfessionale e la sola idea che la protesta avesse potuto prendere una deriva islamista ci sembrava assurda». Poi però il jihad è stato invocato da diversi sheikh di Arabia Saudita, Egitto, Tunisia «in aiuto dei fratelli siriani sunniti». Da quel momento è stato un susseguirsi di battaglie su fronti mobili: Homs, Deir al- Zor, Aleppo, al-Qusair, al-Ghuta; ed eserciti misti; con migliaia di uomini accorsi da tutto il mondo arabo e non solo. Oggi i ribelli sono divisi in quattro principali gruppi: l’Esercito siriano libero, il Fronte islamico (d’ispirazione jihadista ma nazionalista), il Fronte al-Nusra (braccio di al-Qaeda, per il jihad globale), e lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, Isis. Quest’ultimo è recentemente fuoriuscito dal Fronte al Nusra per poi venire ripudiato da al- Qaeda perché considerato troppo violento persino dai seguaci di Benladen. Il risultato è che oggi le forze anti-Assad hanno iniziato una sanguinosa guerra intestina. Così il Paese si è sostanzialmente spaccato in tre parti: il Nord-Est diviso tra curdi e qaedisti, il Nord-Ovest in mano alle forze anti-regime e il Centro Sud, sotto controllo lealista. Dopo aver perso terreno per due anni, invece, l’esercito siriano ha recuperato postazioni ma, soprattutto, ha mantenuto Damasco e una buona parte di Aleppo, la seconda città siriana. Quest’ultima Aleppo attualmente è divisa a metà, le aree controllate del regime vengono colpite da attacchi kamikaze e autobomba, le zone controllate dai ribelli invece vengono bombardate dall’esercito. È stato appurato che nelle aree degli insorti muore il maggior numero di civili, è qui infatti che le famiglie restano intrappolate. È in questo buco nero dell’informazione che i pochi giornalisti che si avventurano hanno altissime probabilità di essere rapiti o di morire. Il caso più recente è quello di Alì Mustafà, fotoreporter canadese di 29 anni, di origini pachistane, rimasto ucciso insieme ad altre sette persone in seguito a un attacco con i micidiali barilibomba. Con Mustafà, sale a nove il numero dei giornalisti stranieri uccisi durante gli ultimi tre anni, mentre più di 22 sono ancora nelle mani di bande armate, dice Reporters senza frontiere. Rapimenti e assedi sono le due armi che usano ribelli e regime ben oltre la guerra che si combatte in prima linea. Con la conseguenza che le persone spariscono e muoiono di fame. Come denunciato anche da Amnesty international: da luglio scorso sono almeno 128 le vittime della denutrizione nel solo campo palestinese di Yarmuk, nel sud di Damasco. Anche la capitale è attraversata dalla stessa linea di separazione che c’è ad Aleppo. Da un lato le persone vanno a lavoro e portano i figli a scuola, dall’altro si muore di fame, o sotto le bombe, se non per uso di armi chimiche.
La vita normale di Damasco è fatta di stipendi che se ne vanno via per fare un pieno di benzina alla macchina e affitti che vengono aumentati ogni sei mesi per via di un’inflazione impietosa, ma anche di padroni di casa che lucrano sui nuovi immigrati, i cosiddetti sfollati interni. Si stima che nell’intero Paese siano almeno sei milioni. Soffrono anche loro ma fanno meno notizia dei profughi fuori confine: 2,5 milioni di persone mal sopportate tra Libano, Turchia, Giordania, Iraq, Egitto e Libia. «Sai perché non piacciamo ai giordani? – chiede Shadi, con tono decisamente rassegnato – Perché contrariamente alla migrazione irachena, arrivata ad Amman dopo il 2003, noi siriani non abbiamo soldi da investire. Purtroppo noi non abbiamo il petrolio».