Adriano Seu, La Gazzetta dello Sport 11/3/2014, 11 marzo 2014
JARDEL: ERO UN RE, SONO FINITO NELLA POLVERE
Oggi dici Super Mario e pensi subito a Balotelli. Ma il primo Super Mario, quello originale, veniva dal Brasile e segnava valanghe di gol negli anni Novanta, tanto da laurearsi per cinque volte capocannoniere del campionato portoghese e conquistare ben due Scarpe d’Oro, unico brasiliano a riuscire nell’impresa. Si tratta di Mario Jardel, ex idolo del Porto caduto in disgrazia nel 2002 in seguito a una crisi depressiva che lo rese schiavo della cocaina. La sua lotta con la droga è durata quasi dieci anni, durante i quali ha peregrinato per altrettanti Paesi cambiando la bellezza di 16 squadre, compreso un fugace e fallimentare passaggio in Italia nel 2004 con la maglia dell’Ancona, con cui ha disputato appena una manciata di partite senza segnare neanche un gol. Ritiratosi nel 2011, Jardel di recente ha confessato a Globoesporte di vedere finalmente la luce in fondo al tunnel, mentre a 40 anni si diletta ancora a segnare per il Vila Nova di Ibirubá, che disputa il campionato amatoriale dell’entroterra gaúcho.
L’ammissione della tossicodipendenza è arrivata solo nel 2008 davanti alle telecamere della tv brasiliana...
«C’è voluto del tempo perché prima ho dovuto ammetterlo a me stesso. Ero convinto di poter gestire il vizio, di poterne uscire quando volevo, ma prima che potessi rendermene conto ne ero già schiavo».
Sono state la mancata convocazione per i Mondiali del 2002 e la separazione da sua moglie a precipitarla nello sconforto?
«Sì, purtroppo la droga per me ha rappresentato un rifugio dalla depressione. È stata dura, ma non mi sono vergognato ad ammetterlo. Ho conosciuto tanti giocatori che ne facevano uso e non hanno mai avuto il fegato di uscire allo scoperto».
Pensa di aver vinto la sua lotta con la droga?
«Ci ho dato un taglio da un po’ di tempo, ma il cammino è lungo. Combatto una lotta quotidiana e ogni giorno è come dover uccidere un leone. Avvicinarmi a Porto Alegre, che considero la mia casa, mi ha senza dubbio dato una grande mano. È l’unico posto in cui mi sento bene. La gente si ricorda ancora di me e mi ferma per strada ricordando i tempi del trionfo in coppa Libertadores nel ’95».
La sua è stata una carriera lunga 21 anni, con quasi 300 gol e svariati titoli, soprattutto in Portogallo: si ritiene soddisfatto?
«Il calcio mi ha dato tanto. È stato e continua ad essere la mia vita, ma non posso dire di essermi fatto degli amici. Ho conosciuto solo gente falsa e senza scrupoli. Finché ero famoso avevo frotte di gente attorno e pagavo tutto, facevo regali. Peccato che al primo problema siano spariti tutti. Ho capito che se non trovi la forza di reagire, sei finito».
Cipro, Bulgaria, Australia, Arabia Saudita. Prima di ritirarsi le ha provate tutte...
«Se sei un calciatore, è difficile dire basta. È come morire e bisogna trovare la forza per rinascere nuovamente. Un calciatore in attività si sente come un re, come se vivesse in una dimensione parallela. Finché vedi il tuo nome sui giornali e la gente ti chiede l’autografo ti senti onnipotente. Poi, quando tutto finisce, non resta che la depressione».
Che progetti ha adesso? Che cosa vorrebbe fare?
«Sto studiando per prendere il patentino da allenatore, ma vorrei tanto poter indossare per l’ultima volta la maglia del Gremio per chiudere in bellezza. Il mio principale obiettivo, però, è lasciare un buon ricordo di me. Vorrei che tutti mi ricordassero come una persona pulita».