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 2014  marzo 11 Martedì calendario

IL GIOVANE PAZ – [LA LEZIONE DI DISEGNO DEL MAESTRO RAGAZZINO]


Ho incontrato Andrea Pazienza quando avevo diciotto anni, forse diciannove, non lo ricordo con precisione. Ero un ragazzino allora, passavo le giornate sulla panchina di un giardino pubblico con i miei amici di sempre. Passavamo il tempo sputando, facendoci tagli con le lamette, giocando a suonare e frequentando con passione ogni maledetta sostanza alterante. Leggevo le storie di Pazienza e avevo l’impressione che parlassero di noi. Di me e dei miei amici intendo. Facevamo le stesse cose che venivano raccontate nelle storie. A volte le anticipavamo pure, altre volte le riproducevamo, e c’era una certa stupida fierezza nel “sentirsi raccontati” nelle storie più truci. Quando disegnavo, in quegli anni, disegnavo come lui, ma male. E quando provavo a scrivere, scrivevo come lui, ma malissimo. Un giorno, dopo che la mia prima fidanzata vera mi aveva lasciato, seppi che Pazienza teneva un corso di fumetto, alla “Libera Università di Alcatraz”, a casa di Jacopo Fo, in Umbria.
I miei genitori mi dettero i soldi per il corso. Costava parecchio, probabilmente era una truffa, ma pure dalle truffe si può imparare se si ha una buona predisposizione. Comunque sia, quella truffa contribuì in modo determinante a farmi diventare un disegnatore di storie. Soprattutto, in quei giorni, al corso, conobbi i miei disegnatori amati. Pazienza, in testa, e poi Scòzzari, e Muñoz e Vincino e altri. Incontrare dei disegnatori “veri” per me che venivo dalla mia panchina tra gli sputi fu una rivelazione. Esistevano persone che erano davvero dei disegnatori. Gente che viveva di storie da disegnare e raccontare. Esisteva quella forma di vita. Era possibile. Ora sembra una stupidaggine, ma questa specie di verbo in carne fu per me una illuminazione. I ricordi sono confusi poi. Lontanissimi. Mi resta in mente il fascino di Pazienza quando parlava e la paura che mi faceva Scòzzari mentre girava intorno al tavolo. Ricordo i discorsi sulle droghe e questa cretina vicinanza che alcune sostanze mi parevano darci. E poi ero piccoletto. Non riuscivo a spiccicare più di due parole in fila. Non avevo uno stile, non avevo tecnica e non avevo talento. Ero sempre in imbarazzo. Le cose che Pazienza diceva le mettevo nella memoria e le ripetevo dentro di me, per non dimenticarle.
Lo vidi disegnare e rimasi di sasso. Mi ricordo anche Scòzzari che voleva farci scrivere con il pennello e la china. Io non riuscivo neppure a tenerlo in mano, il pennello, figuriamoci a scrivere. Ricordo anche il giorno (mille anni dopo) in cui mi ritrovai a scrivere correntemente con il mio W&N serie 7 numero 4. E il sorrisino furbino che feci e il ringraziamento interno e privato che telepaticamente inviai a F. S. Insomma, allora ero piccolino. Mi ricordo che al corso passai tanto tempo in una macchina con una ragazza molto più grande di me, pensando che mi piaceva molto ma che era TROPPO più grande di me e ricordo che ci litigai, le detti una spinta e si ruppe un braccio e mi sovviene che, stupidamente, tutto questo mi appariva perfettamente accordato con l’essere un disegnatore da due lire e un mezzo drogadicto. Non so se a diciotto anni si è scemi per forza. Forse no. Comunque, io lo ero.
Pazienza lo incontrai una seconda volta a Lucca. Lucca Comics. Ero nel bagno. Ero stato a guardarlo disegnare allo stand, di nascosto, senza trovare il coraggio di farmi avanti e dirgli «ehi, sono quello di Alcatraz, il drogadicto con cui parlasti di droghe pesanti e andasti in giro in macchina ». Ma non lo feci. Andai al bagno e quando stavo per uscire lo incrociai mentre entrava. Mi riconobbe e mi salutò (ed è buffo che lo ricordi ancora) e mi chiese se ero andato a “farmi” nel bagno. Risposi di no. Che ero diventato buono. Non era vero. Ma lo sarebbe stato, più avanti. Il suo modo di scrivere e di disegnare fu una maledizione per me, per tanti anni. Non riuscivo a staccarmi. Poi successe. Non so nemmeno come, probabilmente a un certo punto me ne sono fregato. Dello stile, intendo. La voglia di disegnare e raccontare deve avere avuto il sopravvento sui pensieri e sui desideri. Credo che sia andata così. In una intervista video recente dissi che Pazienza aveva rotto il cazzo. Usai proprio questa espressione antipatica. Pensavo che dovevo usarla, che era necessario per trovare altre parole e per guardare avanti, che è una cosa obbligatoria per i bipedi.
Era un momento in cui Andrea Pazienza (il nome, soprattutto, non il lavoro) veniva usato da un sacco di coglioni nostalgici degli anni Settanta, e da ex teste di minchia della “lotta armata” che si erano impropriamente sentiti “cantati” da A. P. E c’era pure tanta gente che seguendo un’onda nuova se ne faceva amico e portavoce. Insomma, c’era da stare da un’altra parte, anche con parole a sproposito, secondo me. Un anno fa ho visto delle tavole di Pazienza a una mostra. Ho visto questi bei disegni a pennarello ed erano bei disegni a pennarello di tanti anni fa e sembravano fatti da un ragazzino. Era così, infatti. Erano i disegni di un ragazzino. I nasi avevano le forme che si disegnano da ragazzi. E pure le ombre erano quelle. Io ero un quarantenne che guardava i disegni di un ragazzino che non c’era più. Mi sono arrabbiato e poi commosso. E poi (come sempre) ho pensato alle parole di Billy Pilgrim: «Così è la vita» mi sono detto. Ho tirato su col naso e sono uscito. E Billy, come tutti sappiamo, ha sempre ragione.
Ora non so cosa resta del disegno di Pazienza nel mio disegno. Niente, mi viene da dire. E anche la scrittura, è cambiata così tanto. Ed è cambiato il mondo, e assai. Spesso mi dico che se lui non avesse fatto quello che ha fatto, nel racconto e nel disegno, io non avrei scritto una sola riga. Ma come si fa ad esserne sicuri? Ed è importante, alla fine? A volte, quando incontro il mio amico più caro, e lo vedo mangiare, gli domando: «Stete magnende giovanotte?».