Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 11 Martedì calendario

ALLA RICERCA DEL CALCIO PERDUTO – [QUANDO IL GIOCO SI FA BRUTTO]


Il pallone italiano è un meraviglioso affresco pompeiano strozzato dalla polvere, violentato da anni di incuria e malgoverno. L’ultimo terzino in grado di azzeccare un cross è custodito al museo. Nei bar il solito vecchio millantatore giura d’aver visto un’ala sgusciare in dribbling. E la moviola in campo da noi l’hanno già introdotta, senza saperlo, certi centrocampisti che corrono al ralenti. Ogni domenica, metà dei posti degli stadi di serie A resta vuota. Nell’altra metà, si sbadiglia. E i tifosi da poltrona non resistono alla tentazione del telecomando: inclusa nel canone salato delle pay-tv, scelgono una partitissima straniera, non tornano più indietro. Se prendete un bus pieno di scolari all’ora di punta, non stupitevi: li sentirete discutere dell’ultimo gol di Benzema con il Real Madrid, mica di Bologna-Sassuolo.

C’è stata un’epoca recente in cui la Serie A ha espresso, nel decennio 1983-1993, la Roma dello scudetto, l’ultima Juve del Trap, il Verona dei miracoli, il Napoli di Maradona, il Milan di Sacchi e degli olandesi, l’Inter dei record, la Samp di Vialli e Mancini, il nuovo Milan di Capello che poi ad Atene nel ‘94 ne segnò 4 al Barcellona e fece piangere Cruyff. Anniversario ricordato anche dalla Bbc in un’analisi impietosa del business reporter Bill Wilson («L’Italia paga il prezzo della stagnazione»), che spiega la crisi anche con gli stadi decrepiti e l’eccessiva dipendenza dalle televisioni.
Curiosamente, il tramonto dell’equilibrio competitivo interno, che figliava il dominio italiano nelle coppe, è cominciato con l’avvento delle paytv (nel ‘93): da allora lo scudetto è stato un affare fra Juventus, Milan e Inter, chi ne ha spezzato l’oligarchia (Lazio e Roma) l’ha fatto a prezzo sanguinoso per i bilanci. Impoverito nella qualità media, il nostro campionato è scivolato al quarto posto in Europa per fatturato, interesse e ranking Uefa, la spietata classifica che ha azzoppato la pattuglia tricolore ammessa ogni anno alla Champions League (da 4 a 3 formazioni).
L’equazione è semplice: il calcio italiano è più brutto perché più povero, non può permettersi la carne di primo taglio. Carlitos Tevez, capocannoniere in A, nel City giocava poco. Gli stranieri più bravi arrivati quest’anno non sono grandi colpi strappati ai nemici esteri: al più, occasioni colte al volo. Inseriti nel nostro campionato, però, sembrano marziani. L’elevata concentrazione di non italiani (55,1% negli organici, il 40% in campo), non un male in sé (in Premier sono il 68%), da noi si spiega con la voglia di risparmiare: i brocchi esteri costano meno, hanno fascino esotico e più alibi (il ragazzo si farà, deve ambientarsi). Costerebbe di più investire nei vivai e insegnare i fondamentali: secondo la Fifa, fra i 31 principali campionati del mondo, l’Italia è ultima per utilizzo di giocatori fatti in casa. La selezione naturale nelle giovanili premia in prevalenza le doti fisiche, più che il bagaglio tecnico. Col risultato di avere atleti più grossi e grezzi. Ripete Gianni Rivera, capo del settore tecnico: «Bisogna ripartire dai fondamentali, non si può sperare sempre che il più prestante sia anche il più bravo».
Le tv, riempendo i forzieri, dovevano rendere i club più solidi. Tali entrate, tuttavia, non sono state investite per programmare, ma hanno surrogato l’autofinanziamento, il tradizionale esborso del presidente padrone e tifoso, figura in via d’estinzione. È nata una forma di assistenzialismo: la Serie A non produce con mezzi propri uno spettacolo da rivendere sul mercato, ma campa dei diritti tv, come fosse un sussidio di disoccupazione. I ricavi delle squadre arrivano per il 57% dai diritti televisivi. In Germania il 29%, in Spagna il 38%, in Inghilterra il 51% (ma è il torneo più ricco). Si configura una rischiosità da concentrazione del fatturato: come se un fornitore avesse un solo grosso cliente, e legasse a lui il proprio destino e le proprie strategie, senza preoccuparsi di sviluppare il prodotto o di conquistare altre fette di mercato. In A, diventano presidenti anche piccoli imprenditori che un tempo non avrebbero potuto: si accontentano di gestire gli incassi delle tv, cercano di far pochi danni e salvarsi. Il risultato? Uno spettacolo imbarazzante. Semplificando, ma non banalizzando: prendono i soldi dei media, principale entrata, e pagano gli stipendi, principale costo. Non sperimentano, non rischiano. Anzi: il credito dei diritti tv viene “scontato” a inizio stagione dalle banche, che anticipano ai club i quattrini anche per il pane. Gli ultimi bilanci disponibili, al 2012-2013, sono stati chiusi in attivo da 6 società su 20: il Napoli, capace di abbattere il costo del personale, e l’Udinese, col suo collaudato meccanismo di scouting (scopre talenti e li rivende con ricche plusvalenze, da anni), sono le uniche con attivi rilevanti.
Il nostro calcio ha dimenticato il suo tempio naturale. L’indice di riempimento degli stadi fa paura: quasi pieni in Inghilterra, 90% in Germania, 67,2% in Spagna, solo 51,9% in Italia. Per l’ultimo rapporto Deloitte Sport, nel 2011-2012 gli spettatori in A sono calati del 7% (22mila di media) e gli incassi del 3% (191 milioni). Vent’anni fa, la A faceva 29.800 presenze a partita. Oggi, biglietti e abbonamenti incidono (fonte: report Figc) solo per l’11% nel fatturato, contro il 32% della Liga, il 23% della Premier, il 21% della Bundesliga. Il Chelsea, ad ogni gara, incassa sei volte più della Roma. Paradossalmente, senza i botteghini la A potrebbe anche sopravvivere, senza le tv dichiarerebbe fallimento. E questo spiega la scarsa attenzione agli spettatori reali e la miopia sul terreno degli stadi di proprietà. Spiega Giovanni Palazzi, presidente di StageUp Sport & Leisure Business, analisi e consulenza: «Il calcio italiano è diventato uno spettacolo virtuale, ha perso il collegamento con la socialità, vive fuori dalla realtà. Lo stadio è il luogo d’amore del tifoso, ma anche una preziosa fonte di ricavi, dai biglietti al merchandising. Inghilterra e Germania hanno goduto di forti aiuti dai governi nella creazione di stadi moderni, in Italia la legge ha avuto un iter sofferto e, così com’è pensata, è diretta all’impiantistica sportiva tout court, non ai club di calcio».
Nel ’92 Berlusconi comprava Lentini dal Toro per 18,5 miliardi di lire. Oggi, la Juve spende 9 milioni di euro per Tevez e prende a zero Pirlo, Pogba, Llorente. Rispetto all’estero, l’Italia nemmeno attira paperoni stranieri: veicola l’immagine di un torneo vecchio (l’età media più alta in Europa), segnato da razzismo e violenza, dove l’unico obiettivo è resistere, per non perdere la fetta di diritti tv. In Premier, 12 club su 20 hanno proprietà estere: gli americani per Arsenal, Liverpool e United, uno sceicco per il City, il russo Abramovic per il Chelsea. Pallotta alla Roma e Thohir all’Inter sono partiti dal risanamento, non dalle follie. «L’Italia non attira capitali stranieri — ancora Palazzi — perché la nostra economia è poco trasparente e competitiva, il regime fiscale e burocratico scoraggia gli investitori e il marchio della Serie A ha perso appeal: i campioni stranieri non sognano più l’Italia, le tv estere vogliono gli altri campionati. Dalla cessione dei diritti all’estero, la Premier incassa quasi metà del totale, la A circa un decimo».