Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 11 Martedì calendario

SOLTANTO LA MORTE IMPEDì A PIO XI DI ANDARE ALLO SCONTRO CON IL DUCE


La funzione della storia della nostra cultura è cambiata. Nel secondo Novecento essa è stata il pane quotidiano delle classi dirigenti e delle élites politiche, tanto quanto oggi lo è l’utilizzo di abborracciate categorie economiche nel discorso pubblico. Quella stagione è finita, lasciando fame di storia. Essa è spesso soddisfatta dalla forza mediatrice del giornalismo; più di rado — è quello che sta facendo la serie Rai de Il tempo e la storia di Massimo Bernardini — restituendo agli specialisti una funzione davanti al grande pubblico.
Per quel pubblico, non meno che per le élites dei decenni passati, la storia dei rapporti fra l’Italia e la Chiesa ha avuto un grande buco nero, coincidente col pontificato di Pio XI. Oscurato dalla diatriba fra modesti avvocati e modesti accusatori di Pio XII, schiacciato dalla riduzione di Benedetto XV alla frase sulla «inutile strage», Ratti ha iniziato ad uscire dal cono d’ombra con l’apertura degli archivi vaticani sul suo papato, disposta nel 2006. Con la lentezza propria dei lavori di storia, gli anni di Pio XI, eletto nel 1922 e morto a febbraio del 1939, alla viglia della guerra, sono oggi più studiati.
Le origini del rapporto col regime sono state esplorate come mai prima da Cattolici e fascisti di Alberto Guasco (Il Mulino), premio Pirovano di quest’anno. La storiografia e le fonti sono state oggetto di due importanti volumi di Lucia Ceci editi da Laterza, Il Papa non deve parlare e L’interesse superiore . Hubert Wolf, vittima della passione a far titoli sanguigni, ha analizzato diversi momenti del pontificato rattiano nel suo Il Papa e il diavolo (Donzelli). E ancor prima Pio XI, Hitler e Mussolini di Emma Fattorini (Einaudi) aveva individuato nel percorso spirituale di Pio XI la ragione del risentimento crescente del Papa brianzolo davanti al Duce.
Ora David Kertzer, già rettore della Brown University, entra da par suo in questo panorama con Il patto col diavolo , in uscita per Rizzoli. Una ricerca ampia, scritta in uno stile che è quello della docu-fiction: con verve immaginifica — tradotta in modo non impeccabile — Kertzer riempie i molti vuoti che esistono fra le carte. Aggiunge dettagli indispensabili in una «sceneggiatura» e assenti dai documenti. E ricostruisce, come in un set intimo, la dimensione psicologica dei suoi personaggi. Le espressioni del viso, i dolori alle varici, lo stato d’animo dell’uno e dell’altro fanno una trama di «sentiment» sulla quale si dipana però la storia cruda: quella che arriva al patto col diavolo — ma chi sia il diavolo e chi faccia il patto, questo il «film» di Kertzer lo svela solo nelle ultime decine di pagine.
Prima c’è un libro su Mussolini e Ratti e sulla nebulosa che li circonda: «tirapiedi» e «collaboratori», grazie ai quali comprendere, secondo Kertzer, la riottosa remissività del Papa davanti ad un interlocutore che detesta e di cui capisce gli inganni, ma dal quale non arriva mai a prendere le distanze. Se non in quel discorso che avrebbe dovuto fare nel febbraio 1939: un j’accuse che la morte gli sfila di mano e che il successore metterà in archivio fino alla sua parziale conoscenza nel 1959 e alla sua analisi completa da parte di Emma Fattorini quasi mezzo secolo dopo.
Al suo lettore Kertzer dice tutto quel che pensa della personalità di Mussolini: ne coglie le descrizioni dalle fonti diplomatiche, ne contabilizza le amanti, dà corpo a patemi e voluttà, inserite in un catalogo del vorace vitalismo che con rapidi versi Malaparte («Sorge il sole, canta il gallo, Mussolini monta a cavallo») imputava all’arcitaliano iperattivismo dei mediocri. Dall’altra parte Kertzer esplora il cortile vaticano: quello di cui il Papa di oggi dice «non siamo una corte», e dal quale cent’anni fa si pretendeva il contrario. Un orticello di dettagli inattesi (Ratti che si fa mandare la pistola a Varsavia, con i bolscevichi alle porte), di sordidi segreti di Pulcinella (come il sanguinoso litigio fra il gesuita Tacchi Venturi, dotto tramite fra Papa e Duce, ed un suo giovane amante), di leggende vaticane (il passo «montanaro» del Papa di Desio). E in questo incornicia tre paure: quella del comunismo, della sottovalutazione del comunismo, e di tutto ciò (ebraismo, modernità, libertà) che ne appare prodromo o frutto.
In questo scenario Kertzer accompagna un Pio XI che muta: ma per lui non abbastanza da incidere a fondo. Ne sono sensori e corresponsabili, a suo avviso, i segretari di Stato: cioè il cardinal Gasparri — il rampolliano che si lamenterà di essere stato licenziato «come un cane» — e poi il cardinal Pacelli, l’uomo che il fascismo pensa di poter usare per moderare il risentimento pontificio, come sostengono molte carte di regime non sempre sincere. Ma Kertzer (e con tanto di ritratti) individua livelli meno vistosi dell’entourage: come il sullodato Tacchi Venturi, il generale dei gesuiti Ledóchowski, il cui ruolo nella mancata enciclica contro il razzismo è enorme, monsignor Pizzardo o padre Gemelli. In fondo a questo percorso c’è l’ingresso della Chiesa e del papato nell’afasia bellica e nella incapacità di leggere una realtà devastata dal conflitto, nel cui fumo si mescola, e per chi lo vede da lungi si confonde, quello della Shoah. Il principale merito di Kertzer non è però scrivere il fatto come un patto, ma informare anche il lettore più disinformato di tutto ciò che potrebbe ignorare: cosa indispensabile per i lettori americani dell’originale, a forse anche per gli italiani che vivono oggi il paradossale antagonismo fra storia e memoria.
Sulla memoria, infatti, l’impegno è forte e crescente: ma quanto l’Italia celebra il 27 gennaio — ricorrenza istituita con una legge che tacque la parola fascismo — tanto più ci si trova davanti ad una «sagra della memoria» indispensabile e ambigua: e non meraviglia che spiriti acuti come quello di Elena Löwenthal ne sentano il paradossale contrappasso. La memoria, infatti, è come un grande e pesante vaso, che non può essere poggiato nel vuoto di conoscenze: e oggi, anche Kertzer lo mostra, rischia di essere posato lì, in un vuoto che alla fine non cerca di capire che cosa sia effettivamente accaduto, ma che cosa sia utile dire su ciò che si pensa sia stato.
In questo vuoto la ricerca italiana ha avuto un’occasione e l’ha persa. Può un Paese come l’Italia, dove la Chiesa ha un peso nel dare significato o nel toglierlo alle istituzioni democratiche (con valori negoziabili o meno), dove il culto del capo si ripresenta puntuale ad ogni passaggio storico, rinunciare ad avere conoscenze su cui posare civismo e memoria? Il libro di Kertzer conferma che la risposta è no: ma mentre se crolla Pompei sentiamo l’onta dell’accidia vanitosa di anni, la negligenza nella ricerca fa fatica, anche per colpa degli storici, a trovare ascolto. Ma i problemi che genera non sono più piccoli.