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 2014  marzo 08 Sabato calendario

METTO IN ORDINE LA VITA IN 38 PAROLE: SONO SCATOLE DI UN TRASLOCO DA ME A ME


[Andrea Bajani]

A come amore, B come bandiera, C come confessione... Si può sistemare la vita in 38 parole, 38 scatole di un trasloco da sé a sé? E che cosa metteremo dentro a “quasi” e “senza”, “vergogna” e “nostalgia”? Che cosa faremo con quello che resterà, inevitabilmente, fuori?
La vita non è in ordine alfabetico (Einaudi), recita il nuovo libro di Andrea Bajani, ma ci ha provato lui a metterla in fila in 38 racconti («38 come i miei anni») che hanno per titolo una parola. «Sono un traslocatore professionista» dice «nel senso che ho cambiato molte case e cambio di continuo la mia condizione: traslochi personali da un Andrea a un altro. Le esperienze trasformano, quelle piccole, come leggere un libro, o un po’ più grandi, come cambiare città». Cosa che lui ha fatto: nato a Roma, cresciuto a Torino, una decina di romanzi e molti premi in carnet, da sei mesi vive a Berlino: «La lontananza ti costringe ad acuire lo sguardo; stringi gli occhi per mettere a fuoco. Non è solo non esserci fisicamente, affacciarsi e non vedere la Mole; sei in un’altra dimensione percettiva e linguistica».
Il tedesco le fa questo effetto?
Studiarlo mi ha riportato all’adolescenza: credi che il liceo sia finito, di avere messo via per sempre il malessere per le interrogazioni, invece basta un corso per accorgersi che sì, sei cresciuto, ma se si ricreano le condizioni di prima quel ragazzo è di nuovo lì. Ti svegli la mattina e dici nooo, devo fare i compiti di tedesco, e hai quasi 40 anni. D’altra parte imparare una lingua è una concessione fuori tempo massimo dell’infanzia. Rivivi il miracolo delle parole, dare un nome a una cosa è come vederla comparire per la prima volta.
E quindi la si osserva meglio.
Sì, come da lontano. La distanza ha molto a che fare con questi racconti, nati dalla volontà di accorgersi di quei momenti in cui la vita prende il sopravvento senza che tu te ne accorga: traslochi di chi è a una svolta, magari per una sciocchezza.
Una grande svolta per lei?
La scomparsa di Antonio Tabucchi (nel 2012, ndr). È come se mi avesse lasciato allo scoperto; ha coinciso con la necessità di dire “io”.
Come è nata la grande amicizia con Tabucchi?
Un colpo di fulmine, un riconoscimento tra due persone che fanno fatica a vivere ma hanno trovato lo stesso escamotage per riuscirci.
La scrittura?
Sì... Inventar delle balle! La maliziosa complicità di avere un segreto che è una debolezza e un tesoro. Comunque, tornando al trasloco: è faticoso, organizzi la vecchia esistenza e nello stesso tempo è un rituale per prenderne congedo ma alla fine c’è sempre qualcosa che resta fuori, una cornice, una palla da tennis, il peluche di tua figlia. Sfuggiti al tentativo di ordinare la vita sono nello stesso tempo la vita, quella che ci chiamerà in causa e ci farà andare, cercare, essere inquieti a dispetto della nostra volontà di ordine.
Qualche parola lasciata fuori?
Felicità, troppo grande; o Stupore, perché è la postura disciolta in tutte le storie: i protagonisti accettano lo stupore di un’altra possibilità, cosa che tutti dovremmo imparare a concederci. Come la donna che da adolescente si era buttata dalla finestra, e ora zoppica, ma a una passeggiata sulla spiaggia non dice no, magari si ferma ogni dieci metri ma l’istinto alla vita è più forte. Il contrario di “è tutta colpa di”, di chi rinuncia perché ha subito, i grandi alibi per non fare niente.
A questo proposito è aperto il dibattito sui giovani senza lavoro: vittime della congiuntura o privi d’iniziativa? Lei che ha scritto due libri sul precariato, come li vede?
Mi occupo della sezione giovani al Salone del libro di Torino. Con i ragazzi lavoriamo sulle parole e ne inventiamo di nuove. Una è “rinuncianesimo”, questa specie di religione che ci porta a rinunciare ancora prima di averci provato: il problema è questo, i tanti che rinunciano a cercarlo, il lavoro, in una specie di autoassoluzione. La precarietà ha a che fare con la difficoltà sempre maggiore di stare al mondo e di trovare uno straccio di sentiero, per cui pullulano corsi di meditazione, yoga o self qualcosa. Si sta perdendo la dimensione dello stare insieme, se non per piccoli gruppi. Intorno infuria la tempesta ma noi 10, 100 o 2000 riusciamo a sopravvivere perché siamo vegani, compriamo il vino dal produttore o stiamo tutti in silenzio a guardare una candela... Una ricerca di senso che non include più la società. Anche se, comunque, lavorare su di sé è positivo. Io lo faccio con la scrittura.
Scrivere è facile per lei?
Ne ho un bisogno folle. Credo che gli scrittori e gli artisti in genere abbiano una sorta di sindrome di inesistenza, altrimenti non avrebbero bisogno di dire continuamente “io esisto” scrivendo parole su un monitor. Scrivo lentamente, comunque, passo più tempo a guardare il computer che a battere sui tasti.
E ha sempre letto molto?
Sì, ho questa malattia, 7, 8 libri in contemporanea aperti come farfalle in ogni angolo della casa. Per imparare il tedesco leggo testi per l’infanzia pieni di illustrazioni: il mio amico ideale in Germania adesso ha 4 anni. La bibliotecaria è convinta che io abbia un figlio piccolo, mi chiede sempre come sta e ormai non ho il coraggio di dirle che non esiste...
È sensibile ai giudizi degli altri?
Potrei dire che non mi pesano, e che mi pesano tantissimo. Un libro è una radiografia, qualcosa di così intimo e fragile che si può scrivere solo a patto di chiamarlo finzione e quindi la critica di qualunque lettore ti tocca. Una parte di te razionalizza, ma è come se ti facessero un graffietto sull’anima. Questo perché il segreto desiderio alla fine è condividere, e se uno ti dice “non mi è piaciuto” è come se tu gli chiedessi: “Diventiamo amici?” e lui ti rispondesse: “No”. Scrivere è domandare: mi aiuti? A non farmi del male, a dare vita a questa cosa che ho scritto leggendomi? E così fa il lettore quando prende un libro in mano: mi aiuti? Ad ammazzare la noia, a capire, a stare un po’ meglio? Siglando quel meraviglioso e solitario patto tra chi scrive e chi, lontano, comincia a leggere.