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 2014  marzo 10 Lunedì calendario

GUIDO MORSELLI LO SGUARDO BAMBINO


«Un artista non dovrebbe mai essere avulso dalla realtà», affermava già Cesare Zavattini, nelle sue vesti eteroclite di pittore, scrittore, uomo di cinema e di teatro. Guido Morselli il reale non l’ha mai perso di vista: pur senza manifestare in alcuna occasione un proprio definito orientamento politico o religioso, ha seguito con attenzione partecipe i temi a volta a volta oggetto di discussione nella società civile e, in quella culturale, soprattutto negli Anni 60 la non effimera querelle intorno alla concezione del romanzo, così come era assiduo follower dei dibattiti in radio, mezzo di comunicazione che molto amava (scrisse persino conversazioni radiofoniche). Si lasciava affascinare e tentare, anche sul piano creativo, da teatro, cinema, fotografia. Mi chiedo se Morselli, osservatore e critico sensibile pur se appartato, oggi sarebbe incline ad aperte manifestazioni di indignazione commentando la società politica contemporanea reale ovvero trasfigurandola in satira (si pensi allo stile grottesco e fantareligioso di Roma senza Papa o sentimentale nel Comunista). Sarei propensa a credere di sì.
Opposta a quella fame di realtà, la sua passione per la natura, la terra e le coltivazioni, gli animali: otia nei quali si manifestava l’altra faccia del suo carattere solitario, amante del silenzio per fuggire il frastuono della folla. Molti tratti dell’una e dell’altra sua indole, non poi così distanti tra loro, quella engagée e quella del bon vivant, assimilabili in una parola nella concretezza della stirpe emiliano-romagnola, si ritrovano in alcuni personaggi dei suoi romanzi: per esempio i protagonisti di Un dramma borghese, Il comunista, Dissipatio H.G., ma più che in questi nel mite re Umberto I della favola dal passo di un minuetto Divertimento 1889, non a caso dedicata a una lettrice al femminile, là dove si accenna a una peculiarità formidabile, «la prossimità sentimentale all’infanzia».
Ora, questa capacità - rara - di conservare in sé, anzi persino di prolungare stupori, sogni, in una parola la «grazia» di uno stadio fanciullesco/bambino dell’esistenza, è ciò che garantisce la facoltà immaginativa, la fantasia. Alberto Savinio, alias Nivasio Dolcemare (La nostra anima), parlava di sé come di un «bambino prolungato», bellissima definizione. Il suo amico Cesare Zavattini ha sempre considerato i bambini interlocutori privilegiati (e non solo nel film I bambini ci guardano, regista De Sica). Se già dava importanza nei primi Anni 40 allo stupore infantile («La meraviglia deve essere in noi», diario), alla bella età di 82 anni, nel 1984, tuonava polemicamente: «Bisogna avere la forza di dichiarare il fallimento di tutte le età successive all’infanzia».
Perché anche in Morselli è importante questo sguardo bambino? Perché lo sguardo di un bambino sa cogliere i dettagli. Un bambino guarda con gli occhi, un adulto vede col cervello. Negli occhi, nelle orecchie dei bambini è più facile trovare sobrietà, nitidezza, discrezione.
Guido Morselli è stato anche un uomo tormentato, che ha molto sofferto, che ha pagato un prezzo troppo alto ai suoi geni di scrittore, che ha posto fine - volontariamente - alla vita nel modo che sappiamo; ma in parte (e se ne vedono tracce primitive nel saggio Realismo e fantasia, l’unico libro corposo non postumo) è riuscito a proteggere una zona franca - nitida, sobria, discreta - di immaginazione infantile, perfin di gioco: la gara delle lumache, ripresa con la sua macchinetta in super otto, le sperimentazioni filmiche dove cercava di imbrigliare il movimento del vento tra le fronde. Questi erano modi di guardare con occhi bambini.
La scrittura in fondo sa a volte annettersi (se, forse, non dovrebbe mai rinunciare a) una dimensione ludica: si pensi a Italo Calvino e alla leggerezza fiabesca dei suoi «antenati», a Robert Walser e ai suoi «perdigiorno». Non è proprio dei bambini raccontarsi favole da soli, mettere in scena storie come fossero la realtà vera nella quale astrarsi dal mondo? Il dio onnipotente e insieme divertito che è il bambino oppure lo scrittore che trasforma una favola in realtà.
Guido Morselli, elegante a suo modo (con stringhe di corda nelle scarpe dalle pesanti suole, il nastro adesivo a fermare strappi nella fodera del trench rigorosamente inglese), misurato nei sentimenti, schivo, salutista, non mostrò mai nella vita e nella sua arte alcun segno di sbavatura, eccessi, esibizione. Rigoroso, sobrio nei temi e nei personaggi, «bon à tout faire, bon à rien faire», non si ritenne mai detentore di una verità rivelata: a ogni pensiero o idea assegnava i confini di un normale buon senso, niente in fondo era apparentemente degno d’essere messo su carta. Semmai il valore assoluto, il fulcro del suo essere spirituale e creativo andava cercato in «una sensibilità, ohimè spesso così ardua a seguire, ad afferrare, a fissare» (diario, 1946).
Asciutto sulla pagina, coltivava intelligenza sobria e precisione di dettaglio, il suono giusto delle parole. Discreto lo fu nel cancellare sé nei suoi personaggi, nella fuga dall’Io, come bene ha detto per primo Giuseppe Pontiggia, nella generosità mimetica, il vero tratto distintivo, la cifra della sua scrittura. L’arte della discrezione è nell’intera parabola del «caso» Morselli e nella beffa del destino che subì con orgoglio (la impubblicabilità delle sue opere, edite quasi tutte post mortem), mai sconfitto nella consapevolezza di valere, di essere un grande Scrittore. Sobrio, nitido, discreto nel testamento, prima di spararsi.