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 2014  marzo 10 Lunedì calendario

PECHINO E L’INCUBO DEGLI UIGURI JIHADISTI ADDESTRATI DA AL QAEDA


Le indagini su cosa possa essere accaduto all’aereo di linea Kuala Lumpur-Pechino MH 370 si stanno ormai concentrando sulla possibilità di una «disintegrazione in volo», spiegabile o con un grave deterioramento del velivolo, un errore o un attacco terroristico. Sulla prima ipotesi, non scartata dagli inquirenti, pesa che il Boeing 777 sia uno dei velivoli più sicuri al mondo, sottoposto a una continua manutenzione.
La pista terroristica, dunque, è come un macigno su chi cerca di trovare un senso all’accaduto. Non per nulla le autorità di Kuala Lumpur hanno aperto un fascicolo per terrorismo. E si è pure mosso l’Fbi. Nel giallo sui passaporti rubati utilizzati da quattro passeggeri, è impossibile non chiedersi se gli impostori non avessero motivi sinistri per trovarsi su quel volo.
Mentre proseguono le indagini, gli inquirenti non speculano troppo apertamente, ma secondo alcune fonte citate da «Reuters» alcuni funzionari di pubblica sicurezza della Malaysia avrebbero detto, di «non escludere la pista uigura». Tesi che fa rabbrividire Pechino. Tanto che subito si è levata a distanza la replica di Li Jiheng, governatore dello Yunnan: «Non vi è connessione», ha detto, fra la scomparsa del MH370 e quanto avvenuto sabato scorso alla stazione di Kunming, quando un gruppo di terroristi si è scaraventato, coltelli alla mano, contro le persone in coda, uccidendone 29 e ferendone più di un centinaio. Eppure non solo i social network, più sensibili in materia, ma anche analisti ed esperti non scartano la pista uigura e le connessioni con quanto ha vissuto la Cina solo la scorsa settimana: se non altro, perché l’attacco alla stazione a Kunming ha modificato le regole del gioco, presentando al mondo un tipo di attacco terroristico inedito.
Da anni la Cina sostiene che il «terrorismo islamico» degli uiguri del Xinjiang, è una realtà che si deve affrontare con decisione. Gli uiguri sono il gruppo etnico maggioritario nello Xinjiang, cuore dell’Asia centrale, sotto controllo cinese, divenuto minoritario nella sua terra in meno di cinquant’anni, dopo massicci trasferimenti di popolazione.
Islamici con forti tradizioni sufi, turcofoni, di aspetto europeo (il che non può comunque non richiamare ai passaporti rubati all’austriaco e all’italiano), gli uiguri hanno molto più in comune con l’Asia Centrale e la Turchia che non con la Cina. Ma sono controllati da Pechino, con pugno sempre più forte.
Negli ultimi dieci anni la politica di Pechino nei confronti tanto del Tibet che dello Xinjiang è stata di cercare di accelerare l’integrazione, con nuovo incentivi per la migrazione e investimenti economici massicci – e un progressivo smantellamento dei luoghi culturali e delle tradizioni. Nel 2009, poco dopo che il governo centrale decise di abbattere la città medievale di Kashgar (ex capitale del Turkestan Orientale) per salvaguardarne solo una piccola parte a fini turistici, lo choc fra gli uiguri fu profondo. Pochi mesi dopo si ebbe la più grave rivolta anti-cinese a Urumuqi che fece circa 200 vittime. Da allora la polarizzazione aumenta, e i controlli sul Xinjiang si sono fatti opprimenti. Chi ha cercato un dialogo che non passasse per la forza è stato messo a tacere – come è avvenuto con il recente arresto di Ilham Tohti, professore universitario moderato, che ha invano cercato un dialogo che consentisse la convivenza, ritrovandosi accusato di «separatismo».
Alcuni, in questa situazione, si sono lasciati sedurre dal jiahadismo, giunto nello Xinjiang dal Pakistan confinante (e del resto, alcuni uiguri sono stati trovati nei campi di addestramento afghani dagli Usa e portati a Guantanamo). La violenza è andata aumentando – ma non solo da parte uigura, se consideriamo la serie di secche notizie rilasciate dalle autorità cinesi nel corso dell’anno che comunicavano l’uccisione di 10, 12, 15 «terroristi».
Dopo l’attentato di Kunming la polizia cinese ha mostrato bandiere e magliette nere, con scritte in arabo: non più le bandiere turchesi del Turkestan Orientale, dunque, ma il ben più minaccioso colore con cui si firma Al Qaeda. Una metamorfosi inquietante, un jihadismo fino a poco tempo fa solo temuto, ma che potrebbe essere una delle piste per ricostruire gli ultimi minuti del volo MH 370.