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 2014  marzo 10 Lunedì calendario

DAL “SOCIALISMO GULASH” ALLA DELUSIONE PER L’EUROPA


«Bruxelles è diventato il capro espiatorio di tutti i nostri problemi, l’ho capito un anno fa all’Opera House di Budapest quando, in una scena del “Mefistofele” di Boito, ho visto una bandiera europea sventolare sulla casa del diavolo...» racconta Lili Mark, 24 anni, analista del Budapest Institute, mangiando insalata di legumi in un caffè sul Danubio, nel cuore di quella capitale ungherese che, secondo «Foreign Policy», a 100 anni dalla prima guerra mondiale, a 25 dalla caduta del muro di Berlino e a 10 dall’ingresso in Europa guida la marcia verso est dei paesi nostalgici del passato.
Dove guarda l’Ungheria, mentre una parte della vicina Ucraina darebbe la vita per emularne l’emancipazione dall’eredità sovietica? Di certo non alle elezioni europee del 25 maggio, un appuntamento che le persone sentono lontano nel significato più ancora che nel tempo.
«L’Europa? Bella, elegante, buon cibo» afferma il 22enne Tamas Kass dietro al bancone del Zangio Artisan Chocolate. Il voto però non lo interessa. Nel 2004 la partecipazione degli ungheresi fu del 38,5%, nel 2009 era scesa al 36,3%, stavolta, prevedono all’Institute for Public Policy KKI, le aspettative sono perfino più cupe. Dopo due disastrose legislature socialiste riformiste il paese si è affidato alla svolta promessa dei conservatori di Fidesz salvo ritrovarsi, dopo aver sforato da subito i parametri di Maastricht, con 500 mila emigrati, la disoccupazione al 10% (25% tra gli under 30), l’entusiasmo per la politica a picco e il sogno europeo infranto sulla burocrazia di Bruxelles a cui i governanti attribuiscono ogni loro fallimento. Il voto nazionale del 6 aprile confermerà probabilmente Fidesz, ma sarà una vittoria di Pirro, nel deserto ideologico dove a trionfare sono lo scetticismo e l’ultradestra nazionalista di Jobbik, che tra i minori di 24 anni seduce un elettore su tre.
«Non è l’Europa ad aver deluso ma la democrazia, il premier Orbàn paragona Bruxelles a Mosca, l’impressione della gente è che votare sia inutile e allora era meglio il comunismo» ragionano tre amici nella Ervin Library. Zsolt Szabo, 23 anni, studia finanza, il coetaneo Rasko Laszlo è ingegnere e il 28enne Tamas Soproni è economista. Figli del crollo dell’URSS, sono cresciuti viaggiando, guardando i film di al Pacino, leggendo Orwell. Ma dicono di essere tra i pochi a rendersene conto: «La libertà è data per scontata, l’Europa non è l’orizzonte dei valori ma del benessere economico, i giovani non parlano di politica e non si sentono parte di niente: altro che generazione europea, quelli come noi sono più simili a un liberal spagnolo o americano che al compagno di banco cattolico».
Budapest è cosmopolita, lavanderie pakistane e take away di falafel s’intrecciano alle botteghe di design nei vicoli del vecchio quartiere ebraico.
«Sei anni fa il paese ha svoltato a destra, ora i ragazzi si ricredono un po’ ma sono confusi, si definiscono anti-capitalisti eppure ne vedo tanti che progettano start-up» racconta Attila Nemes, 41 anni, anima del Media Lab KitchenBudapest. Alle sue spalle, tra computer high tech e radio anni ’30, Marianna, Daniel, Judith, molti ex borsisti dell’Erasmus Student Network, ammettono che l’Europa è la chance di fuggire. Solo il 4% degli ungheresi si vede imprenditore: gli altri vogliono un posto, fisso, qualsiasi.
«Il nostro era noto come il “socialismo gulash” perché se non parlavi di politica vivevi bene, ma così abbiamo alzato parecchio il livello del cinismo» nota Imre Korizs, docente di letteratura alla Eötvös Loránd University, un ateneo nel nord del paese, in quella periferia lontana dalla capitale dove Bruxelles è un totem ostile. È lì, come nel sud rurale, che il soft power europeo ha fallito e le famiglie che guadagnano meno di 500 euro al mese preferiscono il miraggio del welfare a quello della libertà.
«Gli ungheresi sono depressi perché speravano che l’Europa li arricchisse, la destra estrema è più attiva e si avvantaggia di questa apatia» osserva la scrittrice 38enne Noemi Noémi in un ristorante vicino al museo del terrore dove si sono alternati carnefici nazisti e comunisti. Nel romanzo «La vampira snob» (Baldini&Castoldi) ironizza sul nazionalismo della nonna che si lava i denti in un bicchiere con la mappa della Grande Guerra e slogan nostalgici sull’Ungheria mutilata.
Il malcontento cova tra le matricole delle facoltà di legge e storia. «I miei studenti più politicizzati votano Jobbik, un partito nuovo e vivace online che esprime la rabbia popolare per rivoluzioni che qui, come in Ucraina, hanno sostituito un’élite corrotta con un’altra» ragiona al banco del pub Pesti Sorcsarnok il professor Bence Fehér dell’università Károli Gáspár. I giovani bevitori di birra sono a dir poco adirati con Bruxelles che da maggio consentirà agli stranieri di comprare la terra ungherese, più fertile e economica di quella austriaca. E pazienza se, sottolinea il pubblicitario 46enne Attila Dobak, con la retorica della terra Jobbik diffonde «il veleno antisemita». Leggenda, sminuiscono i governativi. Storia, replicano gli anziani.
Padre Lazlo Vértesaljai, parroco del Cuore di Gesú ed elettore di Orbàn, giura che pur snobbando l’Europa gli ungheresi non se ne andrebbero mai. «Nessuno pensa seriamente di voltare le spalle a Bruxelles e quanto accaduto in Ucraina servirà forse a correggere qualche eccesso» conferma una fonte del ministero degli esteri.
Il comunismo è morto, le illusioni di emanciparsene sono morte, ma anche la generazione europa, se c’è, non si sente tanto bene. Dov’è la via Pal, quella dei ragazzi del libro di Molnár che leggiamo in Italia imparando di essere europei? Qui a Budapest non sono in molti a saperlo.

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