Silvia D’Onghia, Il Fatto Quotidiano 10/3/2014, 10 marzo 2014
CITTÀ DELLO SPORT, L’OSCAR ALLO SPRECO
In cima alla gradinata c’è un operaio con la pettorina arancione e la carriola. Si sposta da un punto all’altro della struttura con fare affaccendato, ma risulta difficile capire quale mansione stia svolgendo. E non per mettere in dubbio le sue capacità o la sua voglia di lavorare, ma perchè in questo posto che sembra ai confini del mondo non c’è nulla da fare. Siamo al centro della grande vela, quella che accoglie nella Capitale chi arriva da Napoli lungo l’autostrada A1, un reticolato che si snoda fino al cielo e che sembra un’installazione avveniristica dal fascino oscuro. Se non fosse che per la Città dello Sport di Santiago Calatrava sono stati spesi – anzi, buttati – oltre 250 milioni di euro pubblici, quella vela potrebbe persino apparire bella. L’accesso dal cancello esterno è vietato ai non addetti ai lavori, ma la recinzione che delimita l’immensa area è una groviera a cielo aperto: di fronte al pratone che ospitò i Papa-boys del Giubileo, in prossimità di una rotonda paradiso dei ciclisti, c’è addirittura una discarica, divano compreso e recinzione divelta. Chi vuole raggiungere il cantiere non ha che l’imbarazzo della scelta. Giorno e notte.
La storia della Città dello Sport è tipicamente italiana. Un palasport con 15mila posti fissi in tribuna e due palestre di duemila metri quadrati ciascuna; un edificio per il nuoto con ottomila posti, una piscina coperta più un’altra per gli allenamenti, una vasca tuffi, palestre, spogliatoi e ambienti didattici; un’altra piscina scoperta, una pista di atletica e 50mila mq di parcheggi. L’archistar valenciana vuole fare le cose in grande quando, nel 2006, accetta l’incarico offertogli dal sindaco Veltroni. L’area, di proprietà dell’Università di Tor Vergata, era già destinata ad impianti sportivi. Con la piccola differenza che il progetto preliminare, redatto dal Siit (Servizi integrati infrastrutture e trasporti del Lazio), prevedeva una spesa di 120 milioni di euro. Ma i Mondiali di nuoto del 2009 sono un’occasione troppo ghiotta, per la politica e per gli affari. Sono gli anni in cui Roma deve mostrare al mondo la propria magnificenza culturale e in cui le “grandi opere” sono la tavola imbandita per le cricche. La società che si aggiudica l’incarico è la Vianini Lavori, che fa capo al gruppo Caltagirone, e a gestire i fondi pubblici è la Protezione civile di Guido Bertolaso. Commissario straordinario per la realizzazione dell’opera diventa Angelo Balducci. E però, visto che ci siamo, guardiamo al futuro e alla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2016, che non si sa mai. E così viene chiesto a Calatrava di adeguare il progetto agli standard previsti dal Comitato organizzatore. Aumentano le cubature e lievitano i costi: 323 milioni di euro, di cui 239 per lavori.
GLI ANNI, PERÒ, passano e i Mondiali sono vicini. La Città dello Sport è ancora un cantiere e, alla fine del 2008, si decide che i nuotatori devono essere dirottati al Foro Italico. Che, per inciso, c’è già e funziona bene. Ma chi se ne frega, Roma punta all’oro. E così, quando il 25 febbraio 2009 il progetto esecutivo viene approvato, il conto in tasca agli italiani è di 607.983.772,14 euro, di cui 391 per lavori a misura e 216 per somme a disposizione. Dove li troviamo? Non si sa, e infatti pochi mesi dopo tutto si ferma. Addio Mondiali, addio Olimpiadi, addio soldi già spesi: 250 milioni circa – nessuno è in grado di dirlo precisamente – oltre ad altri dieci che si sono resi necessari per la messa in sicurezza del cantiere.
Sindaco che arriva, spot che ritorna. Alla fine del 2012 Gianni Alemanno, dopo un sopralluogo a braccetto con Calatrava e a favore di telecamere, annuncia in pompa magna: “Abbiamo risolto il problema su iniziativa dell’Università di Tor Vergata, che ha trovato dei soldi privati per ultimare questo progetto e lo abbiamo autorizzato con l’ultimo bilancio approvato”. E poi aggiunge: “Si poteva fare qualcosa di meno ambizioso e faraonico, ma visto che l’opera era stata cominciata, non potevamo non completarla”. Titoloni sui giornali, ma l’acqua che arriva nelle vasche è solo quella della pioggia. Tor Vergata non trova un euro.
Il cantiere, oggi, mette una profonda tristezza: gli archi di cemento con i cavi che penzolano e le assi pericolanti sono lo scheletro dell’ennesimo, enorme spreco italiano. L’assessore all’Urbanistica della giunta Marino, Giovanni Caudo, ridimensiona la vergogna: “Dobbiamo trovare 60 milioni di euro, col ministero delle Infrastrutture, per completare quella sola vela. L’Università proverà ad attingere ai fondi europei”, fanno sapere dal suo staff. “L’Università non ha ancora trovato un euro”, replicano dalla segreteria del Rettore Novelli. Intanto la pettorina arancione dell’operaio sulla gradinata è l’unica nota di colore dopo intense giornate di pioggia e fango.