Gianni Mura, la Repubblica 10/3/2014, 10 marzo 2014
QUEL LIBERO PER CASO DA CAGLIARI AL MESSICO? IL 4-3? PARTITA ORRIBILE?
[Pierluigi Cera]
Pierluigi Cera, Piero per amici e compagni di squadra, comincia col 9 sulla schiena. Centravanti arretrato, alla Hidegkuti. Sul campo dei ricordi gli tocca il 6, un 9 rovesciato, perché è stato, nel Cagliari-scudetto e al mondiale messicano del ‘70, il primo libero di costruzione e a lui più tardi avrebbero dichiarato di essersi ispirati Scirea e Tricella.
«Cosa che mi ha fatto piacere. Ma tutto è nato in modo casuale: s’è fatto male seriamente Tomasini, il nostro libero, e Scopigno m’ha chiesto se ma la sentivo di scalare indietro. Se faccio il libero, lo faccio a modo mio, ho risposto. E l’ho fatto a modo mio. Lui ovviamente era d’accordo. Tenga presente che nel Cagliari scudetto eravamo 17 in tutto: gli undici titolari, due portieri, Reginato e Tampucci, un terzino, Mancin, un mediano, Poli, un jolly, Brugnera, e un attaccante, Nastasio. Non c’era molta scelta. Nenè ha fatto il mediano al posto mio e Brugnera è entrato al suo posto, più avanti».
È vero che prima di una partita Scopigno le disse che, da libero, doveva marcare più di tutti il vostro stopper, cioè Niccolai?
«È vero, ma poi vorrei fare una difesa di Niccolai».
Va bene, la farà. Prima vorrei controllare la veridicità di un episodio. È vero che dopo il 2-2 di Riva su rigore all’82’, in casa della Juve, lei chiede a Scopigno quanto manca e lui risponde: quanto manca a che?
«Non è vero. Anche perché molti dimenticano che vincemmo lo scudetto con Scopigno squalificato per cinque mesi, quindi non in panchina. Accadde a Palermo, la nostra prima sconfitta con l’ultima in classifica. Lui era infastidito perché dal pubblico continuavano a sputargli addosso, cercava di richiamare l’attenzione del guardalinee, che però non se lo filava. Finché Scopigno gli disse dove poteva mettersi la bandierina ».
Sembrano tanti, cinque mesi.
«Forse disse anche dell’altro. Si era svegliato male, anzi l’aveva svegliato il massaggiatore perché in camera sua non c’era. Doveva aver bevuto qualche bicchiere in più e si era buttato a dormire in una stanza a caso. Ricordo che la terna arbitrale era veneta e uno dei tre mi disse sull’aereo: Piero, mi sa che il mister per un po’ ve lo siete giocato. Ma io pensavo a due-tre domeniche. Oggi cinque mesi è tanto se li danno a chi vende le partite. E oggi, ma anche ieri, su una squalifica così pesante ci sarebbero interrogazioni parlamentari. Ma stiamo parlando del ‘70, il Cagliari era una simpatica novità ma non una potenza a livello mediatico. Prima che me lo chieda, è verissimo l’episodio di Scopigno ad Asiago. Passata mezzanotte entra in una camera dov’eravamo in otto a giocare a carte sui letti e a fumare, più qualche bottiglia che non avrebbe dovuto esserci. C’ero anch’io, la camera era piena di un fumo che sembrava nebbia. Silvestri ci avrebbe ammazzato, pensai, mentre Scopigno proporrà una forte multa. Macché. Disturbo se fumo? disse. E poi, con occhiata circolare: però è l’ultima. In mezzora eravamo tutti a nanna e la domenica dopo vincemmo 3-0».
Ma fumavate tutti, al Cagliari?
«Tutti tutti no. Nené e Greatti non fumavano. Greatti era l’unico che viaggiava a riso in bianco e filetto. Si curava come un certosino. Un giorno Scopigno lo cacciò dall’allenamento perché tirando il gruppo correva troppo veloce».
Riesce a riassumere Scopigno in poche parole?
«Me ne basta una: grande. In anticipo sui tempi: non sopportava i ritiri. Capiva di calcio e di calciatori. Dava fiducia. Non urlava, anzi bisbigliava, ma sapeva farsi rispettare. È vero che ci allenavamo poco, rispetto agli squadroni del nord, ma si teneva conto del clima di Cagliari».
E in quei cinque mesi di squalifica?
«Ho un dispiacere. Il Guerino uscì con questo titolo: «Scopigno squalificato, Cera sarà l’allenatore”. Dispiacere per Ugo Conti, il vice di Scopa, tra di noi lo chiamavamo Scopa. Gran brava persona, Conti. È vero che per il mio modo di giocare, a centrocampo e da libero, ero di quelli che sono definiti allenatori in campo. È vero che Scopigno preparava bene la partita e poi diceva: se qualcosa non funziona, vedete un po’ voi. Ma questo lo facevano tantissimi allenatori, tutti quelli che non si prendevano per Dio in terra. Fiducia è la parola chiave. Avremmo potuto vincere anche l’anno prima lo scudetto, eravamo campioni d’inverno, ma ne parlavamo come se la faccenda riguardasse un’altra squadra, non il Cagliari. E forse giocavamo anche meglio a calcio, l’anno prima ».
Come ci è arrivato, a Cagliari?
«Controvoglia. Allora il Cagliari faceva due gare consecutive in casa e due in trasferta. Era come star sempre in ritiro. Io in Veneto avevo la famiglia, la morosa. Bonazzi, il presidente del Verona, mi aveva detto che mi volevano 12 squadre di A. Speravo di finire più vicino a Verona. I problemi maggiori, nel mio calcio, erano casalinghi. Più che gli avversari, dovevo dribblare mio padre Ferruccio, classe 1900, uomo all’antica. A Legnago dirigeva una banca, la filiale della Mutua Popolare. In tutta la vita non ha mai messo piede in uno stadio. Io, quarto di otto figli, ho cominciato a calciare nei campetti lungo l’Adige, poi in una squadretta, l’Olimpia. Da cui il Verona mi ha prelevato pagando un milione e mezzo. Non per vantarmi, ma la media di spesa per un ragazzo a quei tempi era di centomila lire al massimo. A me, minorenne, insomma alla famiglia spetterebbe il 12% di quella cifra, ma mio padre blocca tutto dicendo che i soldi si devono guadagnare lavorando, non tirando calci a un pallone».
Poi le cose migliorano?
«No, peggiorano. Vado al Verona. Un giorno mio padre mi convoca in ufficio, faceva così anche con gli altri figli. Ha l’Arena sulla scrivania. Comincio a capire. La domenica ero stato espulso, la notizia è in un titolo. Mio padre, faccia scura, dice che così gettavo discredito sul buon nome della famiglia e dovevo chiudere col calcio».
Scherzava?
«Non scherzava e me la sono vista brutta. Per fortuna è intervenuto il professor Valerio, vicepreside della scuola e anche sindaco della banca, che l’ha un po’ ammorbidito. Tra l’altro non meritavo quell’espulsione. Campo pesante, giocavamo col Novara. Zeno interviene in scivolata e mi sbrega un braccio. Allora c’erano i chiodi sotto le scarpe, non i tacchetti. Io da terra chiudo la mano a pugno e gli mostro il braccio come per dire «guarda cos’hai fatto». Non lo sfioro nemmeno ma l’arbitro, Varazzani di Parma, ricordo bene, mi manda fuori «per l’intenzione». E poi manda fuori anche Ze- no. Ricordo bene anche l’esordio in A, a 17 anni, ospitando il Milan di Liedholm, Schiaffino, Maldini, Buffon: 2-0 per loro. Come ricordo la prima fascia da capitano. Avevo 22 anni e compagni ultratrentenni. Ricordo, ancora, certi viaggi allucinanti: da Catanzaro a Verona in treno, senza neanche fare la doccia, e arrivare giusto in tempo per la scuola. Oppure occasioni perse: si giocava una domenica a Palermo e quella dopo a Messina. I miei compagni se ne stavano beati una settimana a Mondello e una a Taormina, io su e giù dagli aerei, guai a perdere un giorno di lezioni. Ragioneria l’ho finita, era la condizione per continuare a giocare a calcio. Quando avevo 16 anni erano venuti a casa due dirigenti della Juve, garantendo un collegio serio, attenzione agli studi, ma mio padre aveva risposto picche: quando mio figlio avrà il pezzo di carta farà quello che vuole, ma prima no».
Adesso possiamo parlare di Niccolai e di Scopigno che dice: tutto potevo aspettarmi meno che vederlo in mondovisione.
«Niccolai l’avevo chiamato Agonia, camminava ciondoloni e sembrava avesse sempre male da qualche parte. Era un bel marcatore, si esaltava coi centravanti più famosi. Lo difendo perché è un amico e perché si parla solo delle sue autoreti. Alcune clamorose, è vero. Una per anticipare De Paoli, perfetta incornata nel sette. Un’altra a Bologna, dribblando mezza difesa nostra e toccando in porta. La più incredibile, ma non figura a suo carico, a Catanzaro. Campo mezzo allagato, pieno di gobbe. Quasi alla fine, Niccolai interviene per spazzare via il pallone da fuori area, con l’idea di spedirlo in tribuna. E centra il nostro sette. Brugnera para, Lo Bello non vede ma il guardalinee sì: rigore. Più di me, per Niccolai parlano i numeri. Vincemmo lo scudetto segnando 32 gol, 21 di Riva, e incassandone appena 11, tra cui due autoreti e un rigore. È ancora un record, ed è anche merito di Agonia ».
Cagliari-scudetto, nessun sardo in squadra e tutta l’isola addosso. Non vi pesava?
«Era un orgoglio, non un peso. Eravamo professionisti, non mercenari. Il calore, l’enorme affetto il giorno della partita. Per il resto, in Sardegna c’è bella gente, discreta, che non rompe le scatole, un po’ sulle sue ma quando decide di aprirsi ti dà tutto. L’Amsicora oggi non sarebbe omologato. La tribuna d’onore erano quattro gradoni di cemento coi numerini pitturati. Una sola curva, tutta in tubi Innocenti. Ma a mezzogiorno lo stadio era già pieno, ed era un tifo civile. Non come a Milano e a Torino, dove ci accoglievano a pietrate sul pullman e per tutta la partita ci urlavano banditi e pecorai. Io che non ci volevo andare sono felice di aver fatto qualcosa per quell’isola, e non è un caso se otto del gruppo-scudetto sono rimasti a vivere a Cagliari a fine carriera».
Lei come ha rotto col Cagliari?
«È il Cagliari che ha rotto con me. Andavo molto d’accordo col presidente Marras, dirigente correttissimo e bravissimo. Gli è subentrata una cordata. Alle 21 dell’ultimo giorno di mercato ho saputo che mi avevano venduto al Cesena. Il primo anno me lo sono goduto: ambiente simpatico, e poi volevo dimostrare di non essere finito. Pensavo di retrocedere e quindi di smettere, invece siamo arrivati undicesimi. Idem l’anno dopo. E l’anno dopo arriviamo in Coppa Uefa. Ho smesso a 37 anni, poi ho fatto il ds fino al 2000. Valorizzando Rizzitelli e Bianchi e dicendone quattro, una mattina, ad Arrigo Sacchi che allenava la Primavera. Aveva spostato l’allenamento, previsto nel pomeriggio, per via dell’importanza di non so che partita. Che sia la prima e l’ultima volta, gli ho detto, prima viene la scuola e poi le partite».
Uno psicologo troverebbe un riverbero paterno, nell’episodio. Ma a lei, come a tutti quelli che erano a Mexico ‘70, chiedo se col Brasile poteva finire diversamente.
«Secondo me no, era il Brasile più forte di tutti i tempi. Ma mi lasci fare un passo indietro. Quando sento che il 4-3 coi tedeschi è stato votato miglior partita del secolo, penso che siamo messi proprio male. Una partitaccia. Migliori supplemen-tari, al massimo. Col Brasile, non sono stati quelli ad appesantirci. Ridicolo affermarlo, abbiamo avuto cinque giorni per recuperare. Il modo di giocare, semmai, favoriva i brasiliani. A differenza di noi, rincorse di 50 metri, spendevano meno energie. Sull’1-1 era scritto che chi segnava il 2-1 avrebbe vinto. Mi spiace solo che il 2-1 fosse evitabile, considero eccessivo il 4-1 ma loro erano più forti».
Si diverte ancora col pallone?
«Sì, quando gioco coi nipotini o quando guardo la Roma. Totti lo conosciamo, e un suo passaggio di prima è merce pregiata, ma chi mi incanta è Pjanic. Fa dei numeri in mezzo a tre avversari, in un metro quadrato, che non vedevo da un pezzo. È come avesse due mani al posto dei piedi. La Juve riempie meno gli occhi ma è sempre una brutta bestia da affrontare. Conte non vincerà mai l’oscar della simpatia, ma come allenatore-martello tanto di cappello».