Paolo Mauri, la Repubblica 10/3/2014, 10 marzo 2014
LA STRAGE LENTA E INUTILE DAL FRONTE DEGLI SCRITTORI
Non è la prima volta che La paura, un antico racconto di Federico De Roberto che risale agli anni Venti, viene riproposto. E con ragione: è un bellissimo racconto, per molti aspetti esemplare. Ma ripubblicarlo oggi, come fa e/o unendolo ad altri racconti sempre di De Roberto sulla grande guerra, ha un valore speciale perché il centenario dello scoppio del primo conflitto mondiale ci obbliga ad una riflessione una volta tanto davvero epocale. Quando De Roberto, che era stato interventista, scrive i suoi racconti di vita militare (tra l’altro basandosi su esperienze altrui, visto che lui al fronte non c’era andato) la retorica bellica, nazionalista, futurista e via seguitando, era ancora molto diffusa. L’Italia era in gran parte dannunziana e in molti erano stati a suo tempo gli interventisti, anche di gran nome. Adesso, a guerra conclusa, con alle spalle Caporetto e una carneficina immensa, oltre seicentomila morti, il fascismo nascente aveva buon gioco a gettare sale sulle ferite aperte, sulle delusioni degli ufficiali e sui rimpianti per quella che a molti pareva una vittoria “mutilata”. Intanto D’Annunzio compiva l’impresa di Fiume e ancora una volta la retorica della guerra era merce apprezzatissima.
De Roberto scrive La paura per descrivere l’assurdità della guerra e naturalmente, siamo nel ‘22, trova difficoltà a pubblicare il racconto. L’azione ci porta in trincea, al fronte. Noi, grazie a De Roberto, siamo in mezzo alla truppa. Ascoltiamo i militari mentre commentano ciò che accade, sentiamo i loro dialetti diversi mescolarsi tra loro e all’italiano degli ufficiali. Non sono soldati paurosi: devono andare e vanno, impavidi, sotto il fuoco nemico. «Una lenta, metodica e inutile strage», pensa il tenente Alfani e quasi è sfiorato dall’idea di porre fine a quella tragedia, magari bloccando lui stesso l’azione, che poi voleva dire insubordinazione. Ma ecco che il capoposto chiama il soldato Morana, un veterano della guerra d’Africa. Il tenente Alfani parla di dovere da compiere, ma certo non si aspetta la reazione di Morana che due volte ripete: «Signor tenente, io non ci vado». È un vigliacco? Per tale la retorica bellica lo avrebbe sicuramente spacciato. In guerra bisogna morire. Anzi, è bello morire. Ma Morana non ha paura della morte: ha orrore di una morte stupida, stupida perché, oltretutto, inutile. Invano il tenente cerca di convincerlo: Morana è irremovibile e, mentre sopraggiunge il maggiore in ispezione, prende il moschetto e si spara. Antonio Di Grado, nel concludere la sua finissima prefazione al volume di racconti, illumina l’immagine di quest’uomo con l’arma in pugno collocandolo nella schiera dei “vinti”, ultimo personaggio creato «dal nostro spietato naturalismo» la cui tragica ostinazione ricorda quella del personaggio verghiano Rosso Malpelo.
All’insegna del grottesco, ma con risvolti drammatici, è Rifugio. La storia di un ufficiale che viene sorpreso da un temporale furibondo. Si rifugia, bagnato e infangato, nell’ospitale casa di una famiglia di contadini. Lì viene rifocillato, asciugato e rivestito con i panni di un figliolo che è sotto le armi e che da qualche tempo non dà notizie di sé. Ma quel figlio è un disertore e proprio l’ufficiale in questione sa bene che è stato passato per le armi e pian piano scopre che proprio di lui stanno parlando i suoi cortesi ospiti. Da un lato dunque i valori della solidarietà umana, del sostegno reciproco, della generosità e dall’altro il codice di guerra che non ammette ripensamenti. Dovette finire un’altra guerra e con essa il fascismo perché un romanzo come Addio alle armi, pubblicato in America nel 1929, potesse guadagnare le librerie italiane nella traduzione di Fernanda Pivano. E d’altra parte, su un piano ben diverso, Gadda rimuginò molto a lungo sulla opportunità di dare alle stampe il suo diario di guerra e di prigionia, secco referto di una sconfitta difficile da accettare per chi aveva coltivato guerra e patriottismo come “Dovere” tra i più alti immaginabili. D’altra parte la memorialistica della grande guerra è quasi sempre appannaggio della classe colta: Soffici con il suo Kobilek, Lussu con Un anno sull’Altipiano e via elencando. Bisognerà aspettare anni molto recenti per veder spuntare dal nulla le memorie di un soldato siciliano quasi analfabeta, Vincenzo Rabito, che nella sua Terra matta racconta la trincea “dal basso”, dalla parte di chi seppelliva cadaveri.
La paura di De Roberto mi ha fatto, per altri versi, tornare in mente il capolavoro antimilitarista di Kubrick, Orizzonti di gloria. È un film del 1957 e racconta, siamo sul fronte franco tedesco, i deliri di un generale francese, pronto a sacrificare i suoi uomini per un’impresa impossibile. Ma proprio perché fortemente antimilitarista il film venne bloccato dalla censura francese (uscì solo nel ‘75) e persino negli Stati Uniti ebbe le sue difficoltà, superate grazie al fatto che c’era Kirk Douglas tra gli interpreti. Ma mi ha fatto anche tornare in mente Jaroslav Hašek e il suo immortale soldato Švejk che ha dato della vita militare un ritratto spietato, essendo egli un idiota notorio, pronto ad eseguire ogni comando alla lettera. Secondo Švejk, il succo della guerra consisteva in un supplente di matematica che cercava di uccidere nella trincea opposta un altro supplente di matematica. Aveva torto?
Almeno in Europa i supplenti di matematica hanno oggi impegni molto più pacifici, ma la guerra infuria da tante parti e i nostri militari sono in perenne e spesso pericolosa missione di pace. Leggere De Roberto può essere istruttivo. E persino divertente: avrei messo anche La “Cocotte” tra i racconti, insieme alla Retata e all’Ultimo voto che chiudono la silloge, perché c’è sempre un’altra faccia della guerra, accanto a quella tragica, ed è quella farsesca. Magra consolazione dopo tanto sangue, ma argomento degno, io credo, di riflessione.