Carlo Verdelli, la Repubblica 10/3/2014, 10 marzo 2014
NELLA MENTE DEL BULLO
Il bullo odia. Il bullo non conosce pietà e quando te lo trovi davanti ti prende un’ansia che vorresti scomparire, o che scomparisse. Ma non succede, lui non scompare, anzi ritorna, scova la tua debolezza e la tortura. E più lo soffri, più lui gode. Perché? Che ci guadagna? Adesso che ne ho uno bello grosso davanti, glielo chiedo.
«Cosa volevo diventare da bambino? Come quelli coi macchinoni e la gente che li rispetta. Insomma un narcos». Tuo padre lo era? «Macché, lui è una persona seria, ha sempre lavorato in fabbrica come un mulo, mai andati d’accordo».
Andres ha 17 anni, uno spillo al labbro, due brillantini alle orecchie. Ride con la bocca, mai con gli occhi, piccoli e neri. È nato a Calì, in Colombia, vive in Italia da quando aveva 12 anni, diploma di terza media e un po’ di istituto alberghiero. Nel suo campo, si è già fatto un nome, di cui va bellamente fiero. «A Brescia mi chiamano mano di ferro perché quando picchio divento una macchina, pam pam pam, non mi fermo neanche se l’altro mi prega strisciando di lasciarlo. Niente, io vado avanti, me ne frego, vado avanti perché sono imbattibile. Ho tantissima autostima, non rimpiango niente, non mi pento. Per trovare un posto per me, dovevo farmi largo. Menando? Menando. Rubando? Rubando. Io ti faccio aver paura, è questo il segreto». E tu non la provi, la paura? «Certo che sì. Come è certo che le ho anche prese. Ma sono molto vendicativo. Non lascio conti aperti. L’ultimo che ho massacrato me lo ricordo ancora, rivedo la scena per filo e per segno».
«Discoteca, noi eravamo in 12 e loro in 30. Parte il solito negro di merda, un coglione tira anche fuori il coltello, rissone, usciamo nel parcheggio. Si forma il cerchio intorno a me e al loro boss. Mi metto la felpa sul braccio per parare la lama, lo affronto a mani nude, gli do un calcio sulle gambe, lo disarmo, lo metto sotto e comincio a sfasciarlo. Mi sono sentito un animale, lui mi chiedeva scusa tremando, sputando saliva e sangue, urlando pietà, lasciami vivo. Fortuna che non l’ho ucciso. Dopo, per la prima volta, ci ho sofferto, stavo male. Forse vorrei rivederlo, portarlo a bere un caffè, non so bene... Comunque, con quella vita ho smesso perché ho capito che mi fottevo la mia, di vita».
Prima di smettere, Andres passa per comunità, carcere minorile («Al Beccaria di Milano ho messo subito delle regole: primo, a tavola non si parla». E perché? «Perché mi dà fastidio »), ancora comunità. L’ultima si chiama Kairos, che vuol dire “momento favorevole”, e sta a Vimodrone, periferia milanese. La gestisce, con una pazienza e una mitezza dono di chissà quale cielo, don Claudio Burgio, una specie di angelo dei bulli. Ha anche scritto un libro, che è un programma già nel titolo: Non esistono ragazzi cattivi (Edizioni Paoline, 2012). Le cronache degli ultimi mesi dicono che è una pietosa illusione. Il primo sabato di marzo, tra l’una e le 3 e mezza, ora della movida, la polizia di Milano è dovuta intervenire 6 volte in sei posti diversi, record stagionale: molestie violente a una ragazza in discoteca, scontro a bottigliate in faccia, pestaggio tra due compagnie ad alto tasso alcolico, fermo di un ventenne che sfasciava auto sotto l’effetto massiccio di stupefacenti… La zona 7, una delle più grandi della città (da Baggio a Muggiano), ha appena lanciato un urlo di allarme al Comune e alle forze che dovrebbero tenere l’ordine, indicando una lista di 13 vie, giardini, parchetti dove le baby gang o i piccoli spacciatori spadroneggiano e i cittadini normali hanno di fatto perso il diritto di frequentarle. Hai voglia di controbattere con progetti come “Bullo citrullo” o i corsi di “Rugbull”, ovvero il rugby, e più in generale lo sport, per incanalare in vie più sane la rabbia che si respira tra i ragazzi. «E anche tra le ragazze», spiega Lorenzo Zacchetti, consigliere di zona e responsabile dello sport per il Pd milanese. «Sono loro la vera novità del momento: ce lo segnalano con preoccupazione molte scuole». Ragazze cattive, un po’ per emulazione del peggio del maschio e un po’ perché spinte dal principio di piacere immediato. Tutto e subito e facile. Il corpo è solo uno strumento per ottenere il risultato. In fondo, le varie baby squillo che spuntano qui e là per l’Italia non la pensano tanto diversamente.
Don Claudio sa. Ma continua a combattere la sua battaglia di riconversione del bullo, anche se percepisce l’evidenza: stiamo perdendo la partita coi giovani, ci scappano, prendono scorciatoie pericolose, hanno sempre meno freni e meno modelli positivi. E gli adulti, dai genitori agli insegnanti ai politici, sembrano rassegnati o, peggio, inconsapevoli.
«Negli ultimi anni ci sono azioni molto più violente sul piano fisico, con l’aggravante della mancanza di percezione della gravità del gesto. Non c’è coscienza del reato, del peccato, della colpa, e se arriva è solo dopo un lungo cammino. Prenda la famosa e ricca Brianza: bisogna sfatare l’idea che sia un posto cattolico e tranquillo. Molti di questi ragazzi e ragazze pronti alla violenza, e disinteressati alle conseguenze su se stessi o sulla vittima, vengono dagli oratori, o da famiglie senza particolari problemi, italiani o stranieri non fa differenza. Quello che li accomuna è che l’altro non esiste: o accetta di diventare gregario o se rifiuta, se è diverso, se non sta al gioco, è il nemico da far fuori. Sono figli di un narcisismo dilagante: voglio tutto senza far fatica, dal divertimento ai soldi, perché sì, perché mi spetta, perché il resto è noia». Tra i molti complici, la sostituzione, come droga diffusa, dell’eroina con la cocaina che, invece di annullarli, i desideri li moltiplica e li esaspera. Aggiungerci l’abuso di alcolici come ulteriore sfida alla normalità, la perdita di senso e di denaro davanti a una slot machine, e il cocktail comincia a prendere forma. Emblematica la lettera dal carcere di Davide, 16 anni e 5 rapine: «La cattiveria è una maschera. Si mette quando ci si sente deboli per non farlo capire agli altri, agli amici». La debolezza è vietata, stare sopra per non essere messo sotto. La filosofia di “pam pam” di Andres e dei tanti nella sua scia provoca i danni peggiori negli anni teoricamente migliori.
«Era bello perché facevi brutto, insomma li spaventavi solo a vederti. Minchia, l’hai spaccato quello: il modo in cui me lo dicevano quelli del gruppo, mi faceva sentire un re. E c’era sempre qualcuno col coltello a portata, pronto a tirare due cepponate a chi se la cercava». Roger Mazzarro è un ragazzo molto bello, dall’aria molto sana e di una famiglia molto buona. Ha 42 anni. Dai 16 ai 38 ha deragliato senza particolari perché: da piccolo bullo di scuola a rapinatore, detenuto, sorvegliato speciale. Adesso che ha scontato tutte le pene, lavora per la cooperativa teatrale Opera Liquida con la regista Ivana Trettel e gli ex compagni di prigione. Tra le attività per la prevenzione dei comportamenti a rischio, un giro nel carcere per gli studenti, in modo che vedano cosa li aspetta se sgarrano. «Il problema è che per molti di loro il mito è Riina, o il super spacciatore, il tagliagole. A un ragazzino di Rho, prima della visita, hanno sequestrato un tirapugni. Dimmi te». No, mi dica lei. «Non c’è la percezione del male ma non c’è neanche l’alternativa. Quello dei regolari è vissuto come un mondo triste: se studi, tanto non trovi lavoro; se vai in fabbrica sei uno sfigato. Ecco, facendogli vedere col mio esempio che fine si fa a ragionare così, spero che almeno mi ascoltino». Sperano in tanti, don Gino Rigoldi da una vita: 40 anni come cappellano del Beccaria e una voglia infrangibile di cambiare qualcosa. «La scuola, parte tutto da lì. La prima materia, prima ancora dell’italiano, deve diventare l’insegnamento della relazione con l’altro. Il bullismo nasce così, dal non vedere chi ti vive accanto, dal percepirlo come se fosse trasparente. Se non si cambia, perderemo ancora tanti adolescenti, tanti». Una ricerca di Telefono Azzurro con l’Eurispes dolorosamente conferma: l’80 per cento dei casi di bullismo avviene proprio a scuola, ed è un ombrello largo che comprende botte, minacce, soprannomi insultanti, furti di merendine o telefonini, prese in giro per diversità del compagno- bersaglio (un difetto fisico, un sospetto di inclinazione sessuale “fuori norma”), esclusione manifesta dal gruppo. L’ombra nera si allunga sul web, che diventa teatro di aggressioni, imboscate, mitragliamenti fatti di campagne denigratorie, foto e informazioni false, torture psicologiche di tanti contro uno. Sommando tutto e approssimando a spanne, un adolescente su 10 sarebbe vittima di un bullo, che è un dato di una gravità sociale da far impallidire le stime sul debito pubblico.
Di tanto in tanto, il caso esonda sui giornali per manifesta enormità. Come a Parma, metà febbraio: un quindicenne giustiziato per strada da cinque coetanei per aver scambiato qualche parola con l’intoccabile ragazza del capobanda, frattura al naso perché gli hanno sbattuto la faccia sull’asfalto, ematomi ovunque, tanta gente intorno all’esecuzione, nessuno che sia intervenuto. O come a Bologna, stesso periodo, stesse modalità, con l’aggravante della reiterazione della punizione. La vittima, Paolo, seconda liceo scientifico, ha una breve flirt con una sedicenne, che decide di interrompere. Lei non ci sta, lo attacca via web con insulti sempre più pesanti. Lui commette l’errore di rispondere con un messaggio a tono. Scatta la vendetta degli amici della sedotta e abbandonata. Tre aggressioni in serie, ravvicinate. Racconta la madre Franca: «La prima erano in 18, la seconda in 4, la terza in 6, sempre a scuola. Siccome Paolo è alto e robusto, qualcuno lo teneva mentre gli altri lo prendevano a schiaffi e pugni, dappertutto. Costole incrinate, lesione grave del nervo oculare, zigomi tumefatti. No, nessuno l’ha difeso, né i compagni né gli adulti presenti ai pestaggi. Adesso Paolo va a scuola scortato dai carabinieri, per il resto non esce di casa, niente più cinema, ha paure che prima manco si sognava. C’è uno psicologo, due volte la settimana: lavora per fargli ritrovare fiducia in se stesso». E cambiare scuola, signora, cambiare città? «Non se ne parla. Li abbiamo denunciati tutti, la maggior parte sono minorenni. Andarsene vorrebbe dire che hanno vinto, e non sarebbe un bene per mio figlio».
I bulli fanno morti e feriti, come le guerre. Ci sono da sempre, riassunti in uno dal beffardo e crudele Franti di De Amicis. La differenza è che adesso non sono più la mela marcia nel cesto delle buone. Sono un piccolo esercito di ventura, senza bandiere se non la legge del più cattivo. Avanzano spavaldi ovunque, anche nella piazza grande dei social network dove combattono i nemici fino a costringerli alla resa, compresa quella definitiva del suicidio. Esito tutt’altro che marginale, secondo le statistiche: per i giovani italiani sotto i 25 anni, proprio il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. E alcune di queste morti non accidentali rientrano proprio nel bollettino di guerra del bullismo.
Un anno fa Andrea Spezzacatena del liceo Cavour di Roma, vicino al Colosseo, massacrato di infamie perché portava dei jeans rosa (risultato di una lavatrice venuta male) o la vernice trasparente sulle unghie (perché evitasse di mangiarsele): l’ennesima scritta “attenti, è frocio” sul muro della scuola e lui che crolla dalla vergogna e si impicca con una sciarpa nella sua cameretta, a 15 anni. Appena uno in più di Amnesia, la quasi bambina di Cittadella di Padova che si era scelta questo nickname per dialogare con gli amici su Ask.fm, social molto di moda tra gli adolescenti dove è consentita la partecipazione anonima, che un mese fa si è buttata dal tetto di un ex hotel dopo frustate di insulti ricevuti in risposta alle sue richieste di aiuto perché era un po’ depressa o un po’ ingrassata («Quando ti decidi a tagliarti la vena del braccio, brutta ritardata grassa e culona?»).
È ancora negli occhi di chi ha avuto la sciagura di vederlo il video su Youtube di una ragazzina di Bollate (Milano), umiliata di botte da un’altra che voleva farle pagare l’affronto di averle soffiato il fidanzato. La scena avviene fuori dall’Istituto tecnico Primo Levi, un compagno la filma col cellulare per poi “postarla” su Internet. Comincia con qualche insulto e l’incitamento dei presenti (le voci si sentono fuori campo) a passare ai fatti. «Vi menate o no?». Azione: la ragazza vendicatrice parte con uno schiaffo, poi un calcio. L’altra si spaventa, va verso un’amica: «Aiutami, non vedi?». Ma viene raggiunta, altri schiaffi, cade, un calcio alla schiena. L’operatore: «Vai così, cattiva!». La vittima viene costretta a sedersi per terra, si becca un altro calcio, in testa. «Per favore… Ti prego, ti prego ». L’altra la prende per il cappuccio della felpa e continua a colpirla. Il video termina tra risate di sciacalli.
Anche Andres, il capobranco di Brescia, conosce quel video e scuote la testa rasata: «Bimbi minchia, ecco cosa sono. La biondina faceva la grossa perché c’erano i suoi amici. Se c’ero lì io, sistemavo lei e loro. Comportamenti infantili…». Hai mai pianto, Andres? «Sei mesi fa, appena appena. Mi avevano portato in questura, volevo picchiare i carabinieri, ma erano lacrime piccole, un misto di rabbia e di vuoto, la sensazione che avevo buttato via tutto». Solo quella volta? «Quando mio padre mi menava, e non dico che non avesse le sue ragioni, mi diceva di non piangere. Ho imparato a non farlo». Si alza dalla sedia per andarsene, poi di colpo si risiede, guardando non più me ma una finestra: «Vorrei lasciarmi piangere. Quando trito le cipolle, sono un po’ felice perché mi vengono le lacrime».