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 2014  aprile 09 Mercoledì calendario

QUANDO POMICINO SCOPRÌ LA MOBILITÀ PUBBLICA


Correva l’anno 1988 quando le cronache nazionali vennero improvvisamente invase dai titoli sulla "Grande mobilità" nelle pubbliche amministrazioni. Titoli che forse oggi Matteo Renzi vorrebbe replicare con la sua annunciata riforma per la modernizzazione della Pa (l’ennesima) da varare in aprile. Correvano i Governi Goria e De Mita, ministro del Tesoro era un cinquantenne Giuliano Amato e alla Funzione pubblica c’era il democristianissimo Paolo Cirino Pomicino. Un’Italia lontana anni luce, con moneta sovrana ma già costretta a una lotta titanica contro la deriva dei conti, visto che il debito pubblico in soli cinque anni era passato dal 70 al 90% del Pil.
La legge Finanziaria 1988 aveva disposto il blocco delle assunzioni per mettere le briglie a una spesa corrente fuori controllo mentre sul tavolo del ministro della Pa, a Palazzo Vidoni, s’erano accumulate domande di nuove assunzioni per più di 40mila dipendenti, provenienti soprattutto dagli enti locali che lamentavano carenze di organico. Che fare? Accoglierle e dare via libera ai concorsi avrebbe fatto saltare i piani di rientro messi in campo da Amato. Mentre si sapeva che nella scuola gli esuberi erano consistenti. Come fare a incrociare domanda e offerta? Pomicino, ministro per nove mesi, ebbe l’intuizione di varare una norma che assorbiva l’ultimo accordo intercompartimentale siglato con i sindacati prima della privatizzazione del contratto nel pubblico impiego e che, appunto, prevedeva la mobilità volontaria. Chi voleva cambiar aria ora poteva far domanda. Per spingere un po’ lo spontaneismo in una seconda norma si introdusse anche il principio della "mobilità d’ufficio" per i dipendenti in esubero che non volevano presentare domanda. E siccome a mettersi di traverso avrebbero potuto essere le stesse amministrazioni, gelose della propria autonomia nel decidere le assunzioni o cedere il personale, nella Finanziaria del 1989 s’aggiunse il divieto al bando di nuovi concorsi prima d’aver effettuato una ricognizione sull’esistenza di carenze o esuberi da comunicare alla Presidenza del Consiglio per accedere alle procedure di mobilità. Che cosa successe? Che circa 40mila dipendenti pubblici, molti impiegati di varie amministrazioni centrali, del parastato e tanti insegnanti, fecero una o più domande di mobilità volontaria. Un successo, nonostante le fortissime resistenze di molti enti a ricevere il personale che chiedeva il trasferimento con la motivazione che non tutti erano fungibili. In quell’anno la Funzione pubblica aveva dichiarato circa 30mila esuberi a fronte di 160mila carenze lamentate da Comuni, Poste e ministeri, senza contare le Ferrovie dello Stato. Ricorda oggi Pomicino che «oltre settemila ottennero subito il trasferimento, soprattutto negli enti locali, e altri seguirono negli anni successivi. Certo non fu facile. Ma dimostrammo allora, come potrebbe accadere anche oggi visto che le norme già ci sono, che con una forte volontà politica la mobilità si può fare». In effetti a quei 7mila trasferimenti se ne aggiunsero altri 1.459 (su 18mila domande presentate) di personale delle ex aziende di Stato per i servizi telefonici.
Dieci anni dopo un’altra "specie di mobilità", circa 23mila gli addetti coinvolti, la gestì invece il ministro della Pa Franco Bassanini (dlgs 112/1998, attuativo della legge delega 59 del 1997). Un altro successo anche se, in quel caso, i dipendenti in questione cambiarono datore di lavoro senza trasferirsi d’ufficio. Era il grande cantiere del federalismo amministrativo, con il passaggio dei dipendenti degli uffici di collocamento dal ministero del Lavoro alle province. Anche allora gli ostacoli, soprattutto di una parte del sindacato, non mancarono, ma l’operazione andò in porto.