Andrea Franceschi, Il Sole 24 Ore 9/4/2014, 9 aprile 2014
PIAZZA AFFARI, IL 20% È «MADE IN USA»
Oltre 82 miliardi di euro. Tanto vale la partecipazione degli investitori istituzionali americani nel listino principale di Piazza Affari. Stando alla banca dati S&P Capital IQ, dall’inizio dello scorso anno ad oggi il controvalore delle partecipazioni da oltreoceano nel Ftse Mib è cresciuto di quasi 30 miliardi con un incremento del 64 per cento. Un’impennata dovuta solo in parte alla ripresa dei corsi azionari dell’indice che, dal primo gennaio 2013 ad oggi ha recuperato il 22 per cento. Gli investitori americani hanno comprato e molto. Basti pensare che all’1/1/2013 il peso delle partecipazioni americane nell’azionariato era intorno al 16,5 per cento. Oggi viaggia al 19,4 per cento. Al netto del rally si può quindi affermare che l’esposizione degli investitori americani è cresciuta del 17 per cento.
I capitali sulle banche
Cosa hanno comprato? Soprattutto titoli del credito. Il valore delle azioni delle banche in mano agli americani, ad oggi, è pari a 21,2 miliardi di euro, il 22,2% della loro capitalizzazione. A gennaio 2013 la quota era al 15,6. L’esposizione è quindi salita del 42 per cento. E la controprova dell’interesse degli investitori americani per gli istituti di credito del Belpaese si ha dalle più recenti cronache finanziarie. Proprio questa settimana ci sono stati scambi record sul titolo di Banca Mps salito, nella sola seduta di mercoledì, di quasi il 20 per cento. La Fondazione ha negato operazioni sul capitale ma le indiscrezioni parlano di trattative per cessioni consistenti. Con interlocutori privilegiati proprio grossi fondi di investimento americani. Tre i nomi che circolano ufficiosamente c’è anche Blackrock che, con un’esposizione a Piazza Affari stimata in 14,7 miliardi di euro, è il primo investitore estero in Italia. Lo stesso fondo peraltro, lo scorso 21 febbraio, è stato protagonista di un’operazione di peso sul capitale di un colosso bancario come Intesa Sanpaolo di cui è diventato secondo azionista passando dal 3 al 5% del capitale.
Gli americani hanno in mano un quinto di Piazza Affari. Ma è una stima per difetto dato che Capital IQ non rileva le operazioni più recenti (i dati sono aggiornati ai primi di febbraio). Non tiene conto quindi del 2% di Intesa comprato da Blackrock, che agli attuali valori di mercato vale oltre 750 milioni di euro, o di altre acquisizioni di questi giorni come l’investimento di George Soros ella Igd, l’immobiliare delle coop rosse di cui il magnate americano è diventato secondo azionista con il 5 per cento.
Agli americani spetta la fetta più grossa delle partecipazioni estere sul listino Ftse Mib che ammontano complessivamente a 178,9 miliardi di euro. Cifra che in termini assoluti risulta cresciuta rispetto all’inizio del 2013 (138,7 miliardi) ma stabile al 42-43% se rapportata alla capitalizzazione del listino. Le quote di Francia e Regno Unito, i due Paesi più esposti sulla Borsa di Milano dopo gli Usa, si sono al contrario leggermente ridotte: il loro peso relativo è passato rispettivamente dal dal 5,9 al 4,1% e dal 5,2 al 4,7 per cento.
I perché della scommessa
Le ragioni per cui i capitali arrivano soprattutto da oltreoceano ha molto a che vedere con la cosiddetta «grande Rotazione», il termine con cui gli addetti ai lavori fotografano i consistenti spostamenti di capitale innescati dal cambio di politica monetaria della Federal Reserve. La banca centrale americana, per far fronte alla crisi finanziaria del 2008, ha adottato misure ultraespansive che hanno comportato un azzeramento dei tassi del mercato obbligazionario. Gli investitori a caccia di rendimento si sono rivolti così ai mercati emergenti facendo quello che in gergo si chiama "carry trade": ci si indebita a costo zero dove i tassi sono bassi (negli Stati Uniti) per poi investire dove i rendimenti sono più alti e l’economia è in crescita (i Paesi emergenti). Dopo che la Fed ha deciso di ridurre gli stimoli monetari tuttavia il meccanismo si è inceppato. Il mercato ha iniziato a vendere pesantemente bond e azioni dei Paesi emergenti: dall’inizio del 2013 ad oggi, stando agli ultimi dati Epfr Global, il deflusso complessivo dei fondi specializzati nelle nuove economie (equity e bond) ha quasi raggiunto la cifra tonda di 100 miliardi di dollari (di cui 40 solo in questi primi mesi del 2014).
Male i Brics, bene i Piigs
Una fetta importante di questa liquidità è stata dirottata verso asset con un simile rapporto rischio-rendimento ma decisamente meno inflazionati: bond e azioni dei Paesi periferici dell’Eurozona in primis che, non a caso, hanno registrato performance superiori alla media. Sia nel 2013 che in questi primi mesi del 2014. Fuga dai Brics, denaro sui Piigs. A sintetizzarlo in una battuta è questo quello che è successo e che ancora sta succedendo. Gli ultimi dati Epfr Global relativi alla prima settimana di marzo non emergono segnali di ripresa degli emergenti. La striscia negativa, per i fondi azionari, prosegue ininterrottamente da 4 mesi e mezzo mentre per gli europei il momento è più che mai favorevole. Grazie soprattutto alle Borse dei periferici il saldo da inizio anno è positivo per 24,8 miliardi di dollari.