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 2014  aprile 09 Mercoledì calendario

LE RIFORME VIRTUOSE


L’Istat certifica che, nel 2013, il nostro debito pubblico (2.076 miliardi al 30 giugno) ha raggiunto il 132,6 per cento del prodotto interno lodo. È il livello più elevato, in tempo di pace, dall’Unità a oggi. Dopo Giappone e Grecia, l’Italia ha uno dei rapporti debito/pil più elevati al mondo, assieme a Giamaica (139%), Libano (136%) e al microscopico (51.134 abitanti) Saint Kittis and Nevis (133%).
Nel 1861 l’Italia aveva ereditato un debito modesto, pari a circa il 40 per cento del pil. Sino alla Seconda guerra mondiale, un periodo di aumento del rapporto debito/pil (1861-1898 quando l’economia stentava a decollare) è stato seguito da fasi di riduzione (1898 - 1913 e 1920-25, anni di rapido sviluppo accompagnato da politiche fiscali adeguate).
Nel secondo dopoguerra fu la forte inflazione a consentire alla Repubblica di partire con un debito quasi azzerato (poco più del 20% del Pil). Il rapido sviluppo contenne poi, sino a tutti gli anni 60, il debito sotto il 40 per cento del Pil. Negli anni 70, la crescita del reddito rallentò mentre si ricorse alla spesa pubblica in disavanzo per oliare le tensioni sociali.
Nel 1980, il debito era ancora inferiore al 60 per cento del Pil, la soglia poi stabilita a Maastricht per l’adozione dell’euro. Al momento della firma del trattato il rapporto debito/pil aveva però superato il 100 per cento. La crescita economica realizzata negli anni 80 offrì - come dimostra la storia del primo 900 - le condizioni per mettere definitivamente sotto controllo la spesa pubblica e debito. L’occasione fu sprecata. Si scelse la via facile per ottenere consenso: spendere senza tassare. Il forte rialzo dei tassi di interesse al netto dell’inflazione accrebbe enormemente il costo del debito, senza che ciò sestasse allarme nelle élites di governo: la finanza pubblica restò fuori controllo. La storia dell’ultimo ventennio è nota: convinti i membri dell’Unione europea ad ammetterci nella moneta unica pur con un debito quasi doppio rispetto al limite stabilito dal trattato, non adottammo le misure necessarie alla crescita né mettemmo in sicurezza i conti pubblici.
Fino al 2011, i bassi tassi di interesse, ottenuti grazie all’appartenenza all’euro e all’abbondante liquidità mondiale, hanno ancora una volta consentito a governi e opinione pubblica di rimandare il momento di affrontare il problema del debito. Il Belgio, che alla metà degli anni 90 aveva un debito superiore al 120% del pil, lo ha nel frattempo portato sotto il 100 per cento, malgrado la crisi.
L’eredità di un debito al 132 per cento del Pil è un enorme handicap per l’economia italiana: la rende vulnerabile alle variazioni dei tassi e alle percezioni di rischio dei mercati, sottrae risorse agli investimenti pubblici (un debito all’80 per cento del Pil renderebbe disponibili almeno 30 miliardi), impedisce l’utilizzo di politiche fiscali per il sostegno anticiclico della domanda. Ipoteca le risorse che produrranno i nostri figli e nipoti, diminuendo le prospettive di crescita a lungo termine.
La storia ci consegna il peso di un enorme debito ma dà anche qualche indicazione su che cosa fare e non fare. La scelta di liquidare il debito con l’inflazione, scelta per breve tempo da Luigi Einaudi nell’immediato dopoguerra, non è né praticabile né desiderabile. Implica l’uscita dall’euro, con disastrose prospettive di sviluppo, distruzione del risparmio delle famiglie e selvaggia redistribuzione del reddito. L’opzione virtuosa è quella abbracciata dopo la crisi del 1892-93 in un quadro di cambio fisso simile a quello attuale: riforme strutturali favorevoli alla crescita e bilancio dello stato in credibile equilibrio per un lungo periodo di tempo.
Le "riforme" necessarie al rilancio dell’economia e quindi alla progressiva riduzione del rapporto debito/pil sono note da tempo: il Sole va ripetendo una propria ricetta, abbastanza simile a quella - seppure ancora un po’ vaga - annunciata dal presidente del Consiglio.
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, è stato più preciso nell’intervista del 6 marzo a questo giornale. Spagna, Irlanda, Portogallo e perfino la Grecia escono dal tunnel, perché non facciamo altrettanto? Perché la nostra classe dirigente, non solo politica, reagisce stizzita quando la Commissione Ue dice che non stiamo facendo abbastanza per ridurre gli squilibri che frenano la nostra economia? I veti incrociati dei piccoli e grandi interessi spiegano in parte il nostro immobilismo ma questo si nutre anche di una cultura diffusa. È la cultura di chi pensa che lo sviluppo, anche nel lungo periodo, si ottenga solo o soprattutto con risorse pubbliche, di chi ripete che l’Italia ha fatto "i compiti a casa" e si stupisce che il resto del mondo non capisca (si tratti della "perfida" Europa o di quanti non corrono a investire da noi), di chi continua a ripetere che bisogna "battere i pugni sul tavolo" a Bruxelles per "sforare" il 3 per cento (come se, qualunque cosa dica l’Ue, non dovessimo fare i conti anzitutto con chi finanzia ogni anno per 400 miliardi il nostro debito e può facilmente cambiare idea). La cultura di chi nulla ha imparato dalle vicende che hanno prodotto il livello di indebitamento più elevato di tutta la nostra storia unitaria, insieme al ventennio di più bassa crescita di redditi, investimenti, consumi.