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 2014  aprile 09 Mercoledì calendario

LE BURRASCHE DEL TERZO OCEANO


La sera di Natale, ogni Natale, migliaia di abitanti di Calcutta migrano verso la cattedrale di Saint Paul, gotico-vittoriano costruito dagli inglesi nella prima metà dell’Ottocento. Sono i cristiani della città, ma sono soprattutto indù, qualche musulmano e genti di ogni religione. La metropoli — oggi si chiama Kolkata — sembra ancora quella di Madre Teresa, a camminare per le strade: una miseria oscena. In realtà, «la città della notte spaventosa» (Kipling) è in movimento. Le famiglie oggi sotto i porticati e nelle buche dei marciapiedi non sono quelle dell’anno precedente, sono nuovi arrivati dalle campagne, poveri degli Stati indiani dell’Uttar Pradesh e del Bihar: gli altri si sono mossi un po’ più su, hanno trovato un tetto di cartone, forse di lamiera, l’anno prossimo magari avranno una stanza con muri di pietra.
La povertà non è più statica come ai tempi della suora dei poveri, nemmeno sulle coste del Golfo del Bengala. La secolarizzazione del Natale dice che Calcutta è metropoli aperta e globale. Gli espatriati tornano e fanno business, molti giovani studiano, nuovi quartieri nascono: speranza e disperazione (Kolkata viene da Kali o Kalika, divinità della distruzione, della morte, ma anche del cambiamento), come tutto, in questa parte del mondo. Sulla costa opposta dell’India, quella occidentale sul Mare Arabico, Mumbai è già una megalopoli degli affari: finanza, industria, cinema a fianco dei più grandi slum dell’Asia. Più a nordovest, sulle coste del Belucistan pakistano, verso l’imbocco dello Stretto di Hormuz, nella città di Gwadar, l’Iran investe quattro miliardi di dollari per costruire una raffineria gigantesca. E la Cina ha comprato l’anno scorso il porto: tra Gwadar e la vicina Pasni investirà 12 miliardi di dollari per costruire basi commerciali e logistiche strategiche per i rifornimenti, soprattutto energetici, dal Medio Oriente, con collegamenti stradali e oleodotti verso il Nord cinese.
Sempre la Cina — è la strategia del «filo di perle» — crea basi commerciali, che possono diventare postazioni militari, a Hambantota, nello Sri Lanka; a Chittagong nel Bangladesh; in Birmania, con reti stradali e fluviali tra la costa del Paese e lo Yunnan cinese; e un centro di sorveglianza nelle Coco Islands, nordest del Golfo del Bengala. L’obiettivo di Pechino è garantirsi posizioni commerciali e militari per superare crisi future attorno allo Stretto di Malacca, la via d’acqua tra la Malaysia e l’isola di Sumatra (Indonesia), ai cui due capi stanno Banda Aceh e Singapore e che è il passaggio obbligato dei commerci tra il Medio Oriente e il Mare della Cina Meridionale, con i suoi grandi porti. C’è addirittura un vecchio progetto — un giorno potrebbe essere finanziato da Pechino (e forse da Tokyo) — che prevede di realizzare una via d’acqua alternativa allo Stretto di Malacca, un canale che tagli la lingua di terra che congiunge la Malaysia a Tailandia e Birmania. L’ex presidente cinese Hu Jintao aveva posto il «dilemma di Malacca» come questione strategica per la sicurezza di Pechino.
È l’Oceano Indiano. In gran movimento, tornato a essere uno dei cuori pulsanti del mondo: luogo di commerci e di arricchimenti, di scontri politici e religiosi, di pirati, di rivalità nazionali, di sviluppo disordinato, di scelte militari. Il collegamento tra Europa, Medio Oriente e Asia del quale non si parla quasi mai, ma è un concentrato dei problemi della globalizzazione e un indicatore di come sarà il futuro del pianeta. Oggi a noi europei sembra che tutto succeda in Ucraina. Gli strateghi americani parlano di quello in corso come del secolo del Pacifico. In realtà, il terzo oceano per dimensioni — tra le coste dell’Africa a Occidente, l’arcipelago indonesiano e l’Australia a Oriente, la costa asiatica a Nord e l’Antartide a Sud — è in turbolenza, nel bene come nel male. Gli Stati Uniti — che pure nell’Oceano Indiano hanno una delle loro maggiori basi militari, Diego Garcia, a sud delle Maldive — sembrano sottostimare questo straordinario bacino di culture antiche, di commerci sospinti dai monsoni e di confronto di civiltà: in fondo sono una nazione metà sull’Atlantico e metà sul Pacifico e l’interesse strategico dichiarato da Barack Obama nel cosiddetto «Pacific Pivot» riguarda più l’Asia dell’Est e il confronto diretto con la Cina. Ma l’Europa, rivolta a Oriente fino alla scoperta dell’America (e anche dopo), non dovrebbe dimenticare questo lago in ebollizione, dal quale emergono nuove potenze, nuove opportunità ed enormi rischi.
Il 40 per cento del petrolio commerciato nel mondo passa dallo Stretto di Hormuz e entra nell’Oceano Indiano, a Ovest. Metà della flotta mercantile mondiale ha sede attorno allo Stretto di Malacca, via strategica per i commerci, a Est: da lì, oggi transita un quarto del commercio globale. Ma da sempre quel lungo canale è cruciale negli scambi tra Oriente e Occidente: «Chi è signore di Malacca ha le mani alla gola di Venezia», dicevano i portoghesi più di cinque secoli fa. Oggi come ieri. L’Oceano Indiano, d’altra parte, non dovette attendere l’era del vapore per unire i commerci tra le sue coste: la scoperta del sistema di monsoni — «prevedibile come un orologio», scrive Robert Kaplan nello straordinario libro Monsoon (Random House) — che a nord dell’Equatore cambia la direzione dei venti ogni sei mesi e consente di viaggiare a vela spinti da una brezza certa, aprì sin dall’Antichità i rapporti tra la costa occidentale dell’India (Malabar), la Penisola Arabica, il Corno d’Africa. Tra scambi e conflitti, un incontro e un confronto di civiltà senza pari, una mescolanza di culture formidabile: per gli scorsi cinque secoli di dominio dell’Occidente rimasta però quasi congelata. Bene: oggi che l’Atlantico non è più il cuore della geografia globale, l’Oceano Indiano è tornato.
Su queste acque sta montando la rivalità tra Cina e India. Dalle coste dello Stato semifallito della Somalia alla Malaysia, viaggiano i pirati e le pattuglie internazionali antipirateria incrociano barche di pescatori poveri e cargo carichi di container. In quest’area si è spostato almeno in parte l’epicentro dei rischi nucleari: l’India e il Pakistan in conflitto, ognuno con la sua bomba; la Cina, potenza atomica tranquilla, ma che ammoderna esercito e flotta militare a gran velocità; l’Iran che ci prova; e il terrorismo di matrice islamica, che un ordigno nucleare non disprezzerebbe. Sul lato nord dell’Oceano le crisi di Iraq e Afghanistan sono la faccia evidente del confronto tra Occidente e islam. A Est, l’Indonesia è lo Stato musulmano più popoloso. Sulle coste dell’intero bacino i poveri sono milioni, ma non più rassegnati alla miseria e al sistema delle caste: Paesi giovani, mossi da uno spirito nazionale che attorno a questo oceano è una forza di emancipazione, positiva anche se non sempre pacifica. Sui litorali e nelle isole i cambiamenti del clima e l’innalzamento delle acque stanno diventando spesso drammatici, dal Bangladesh alle Maldive. Come i conflitti sul controllo delle acque interne.
È un tessuto di economia, commerci, demografia, natura, politica e guerra, di speranze e di angosce che fa dell’Indian Ocean Rim l’area del pianeta più movimentata, il luogo che forse prefigura il futuro della globalizzazione, delle sue possibilità e dei suoi rischi, quando l’ordine internazionale è incerto e la potenza dominante americana tutto sommato lontana. Turbolenza meravigliosa e spaventosa.
«Sulla spiaggia di mondi sconfinati s’incontrano i bambini. La tempesta vaga nel cielo senza strade, le navi naufragano nelle acque senza binari, la morte circola e i bambini giocano. Sulla marina di mondi sconfinati è la gran riunione dei bambini», scriveva, un secolo fa, Rabindranath Tagore, l’immenso poeta di Calcutta, mentre guardava il mondo dal Golfo del Bengala.