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 2014  aprile 09 Mercoledì calendario

UN’IMPOSTA MONDIALE PER UN MONDO GIUSTO


Il saggio di Thomas Piketty Le capital au XXIe siècle («Il capitale nel XXI secolo») è un libro di 960 pagine, e non è finita qui: un gran numero di grafici, tabelle, modelli matematici, informazioni storiche si possono richiamare con un clic da una ricchissima appendice collocata in Internet. E, ciò nondimeno, è un libro facilmente leggibile, a tratti appassionante. I capitoli della prima parte esigono un po’ d’attenzione, è vero. Ma, fatte proprie le definizioni iniziali, il resto scorre, aiutato da una prosa semplice, da esempi letterari gustosi (Jane Austen e Honoré de Balzac dovremo d’ora innanzi annoverarli tra… gli economisti dell’Ottocento), da ricchissimi riferimenti storici per molti Paesi, da polemiche brillanti e alla fine — ma si tratta di centinaia di pagine — dalla discussione di questioni politiche e sociali di estrema urgenza e attualità. Le questioni del debito pubblico e del riscaldamento globale, delle remunerazioni dei dirigenti e dei fondi sovrani, dello Stato sociale nei suoi pilastri principali e della progressività fiscale, del merito e della ricchezza nello spiegare i risultati scolastici e gli esiti professionali, dell’eredità e delle imposte di successione… e tante altre ancora.
Il centro dell’analisi è la distribuzione del reddito annuo di un Paese tra grandi categorie: redditi da lavoro e redditi che provengono dalla proprietà dei capitali, capitali industriali e commerciali, capitali finanziari, capitali immobiliari, incluse le abitazioni di proprietà, capitali agricoli. Dunque ricchezza più che capitale, nell’accezione usata oggi dagli economisti teorici. Questo capitale-ricchezza (d’ora innanzi solo capitale, per semplicità) ha da tempi immemorabili, anche prima del capitalismo e della rivoluzione industriale, generato un reddito per i suoi proprietari, e questo reddito, in rapporto al valore del capitale, è normalmente stato superiore al tasso di crescita del reddito complessivo: tipicamente nell’ordine del 4-5 per cento per il capitale rispetto all’1-1,5 per cento per il reddito nel suo insieme, nella fase capitalistica dopo la rivoluzione industriale.

Stando così le cose, la quota dei redditi da capitale sul reddito complessivo di un Paese ha una tendenza immanente ad aumentare se il capitale aumenta più del reddito, cosa assai facile se i capitalisti non consumano tutti i loro redditi e se, a maggior ragione, vi si aggiungono risparmi da parte dei redditi da lavoro. Rispetto a queste tendenza c’è stata solo una grande eccezione: il periodo tra le due guerre mondiali e fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Qui Piketty ripercorre un terreno già molto arato — quello della eccezionalità delle turbolenze sociali interbelliche e della successiva «età dell’oro» —, ma mai esplorato con questo dettaglio e con una tale abbondanza di dati.
A questa prima parte dell’analisi si aggiunge poi una seconda, quella per la quale Piketty era già giustamente famoso: la distribuzione dei redditi non per grandi categorie, per tipi di reddito, ma per persone o unità familiari. Appoggiandosi, soprattutto per Francia e Regno Unito, a serie di dati fiscali estremamente lunghe e affidabili, egli mostra con grande chiarezza come funzionano i meccanismi — soprattutto quelli ereditari — che conducono alla concentrazione della ricchezza di un Paese in poche mani, all’oggi famigerato 1 per cento della popolazione. Come funzionavano a metà Ottocento, ai tempi di Balzac e di Jane Austen, e come funzionano ora. Già, perché, finita l’eccezione a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, la regola è tornata ad operare in pieno, i redditi da capitale sono tornati al 4 per cento medio al netto di imposte e il tasso di crescita del reddito — esauritisi in Europa e nei Paesi industriali avanzati la grande crescita postbellica e il baby boom — è tornato a livelli mediamente inferiori al 2 per cento.
Queste sono cifre per cui il capitale si accumula quasi da solo, cresce il rapporto tra capitale e reddito e con esso la quota di profitti e altri redditi da capitale nel reddito complessivo. E sono anche condizioni nelle quali, a livello di persone e famiglie, il reddito si concentra e le diseguaglianze si accrescono. Le preoccupazioni per l’eccessiva concentrazione dei redditi, ciò che avviene soprattutto, ma non solo, nei Paesi anglosassoni, sono assai diffuse, ma mai i dati che documentano il fenomeno sono stati esposti con tanta abbondanza e chiarezza, e mai i meccanismi economici e sociali che lo alimentano sono stati analizzati con tanto dettaglio in un singolo, grande libro.
Piketty non vede forze spontanee, interne al capitalismo stesso, che possano contrastare queste tendenze, tendenze che alla lunga generano squilibri, crisi e minacciano lo stesso processo di crescita del reddito complessivo e del benessere. Come era già avvenuto in modo traumatico nel periodo tra le due guerre mondiali e in modo più benigno nell’«età dell’oro», nei trent’anni postbellici, è dalla reazione della società e della politica che ci si può attendere una inversione del «doppio movimento» del pendolo di Karl Polanyi: il movimento di espansione capitalistica e il contro-movimento di autodifesa della società volto a contrastare le conseguenze del primo. Ma Polanyi scriveva in riferimento a Stati nazionali, in cui la società poteva far valere le sue ragioni nei confronti di un sistema politico e di uno Stato sovrano che la rappresentava ed era in grado di influire sul capitalismo nazionale. Ora viviamo in un villaggio globale in cui il capitale spazia senza ostacoli, in cui le unità statali (e democratiche) sono invece molteplici, frammentate e spesso l’una contro l’altra avverse per motivi di interesse nazionale, per carpire i vantaggi che possono provenire dallo spostamento dei capitali nel proprio territorio trasformato in paradiso fiscale.

Quando Piketty descrive minutamente la misura ideale che dovrebbe essere attuata per contrastare le tendenze di cui dicevamo — e vi dedica un capitolo di 45 pagine: «Un’imposta mondiale sul capitale» — lo fa sia per mostrare come questa sarebbe risolutiva, ma soprattutto per analizzare in dettaglio le difficoltà politiche che vi si frappongono in un mondo globalizzato: un’utopia, dunque, anche se un’utopia utile per far capire come va effettivamente il mondo.
Insomma, c’è economia, storia politica e sociale, storia economica, critica dell’ideologia... tutti gli ingredienti del Capitale di Marx: per un economista non marxista, per un economista che usa agevolmente gli strumenti teorici, statistici e matematici dell’economia moderna, si tratta di un risultato notevole, che alimenterà a lungo la riflessione e la critica.
Ambizione eccessiva? Forse. Ma anche insoddisfazione profonda per lo stato dell’economia accademica, un’insoddisfazione avvertita da un numero sempre maggiore di studiosi di questa disciplina. Ad essi è dedicato un breve, ma denso paragrafo finale — «Per un’economia politica e storica» — con il quale sono ampiamente d’accordo, ma nel quale non mi addentro, perché spero che, tra i lettori di questa recensione e del libro, gli economisti di professione siano una minoranza. Il libro può essere letto da un pubblico assai più vasto e merita di esserlo.