Elisabetta Rosaspina, La Lettura - Corriere della Sera 9/4/2014, 9 aprile 2014
LA BADANTE DI DIO
Nessuno è eterno. Nemmeno Perpetua. Ma la memorabile figura raccontata da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi non è scomparsa. Anzi. Vive e lotta (spesso, ma non sempre) assieme al suo parroco, come dimostra in tivù la contemporanea e fantasiosa Natalina, a fianco del suo don Matteo. Solo che adesso è regolarmente salariata e inquadrata (in linea di principio); e, per favore, non va chiamata Perpetua. Tantomeno nel Lecchese, dove il romanzo manzoniano fu ambientato e dove è più forte, perlomeno in canonica, l’allergia al ricordo del personaggio bisbetico e impiccione che lo scrittore mise perfidamente in casa di don Abbondio.
Perpetue una volta, oggi sono «familiari del clero». Sebbene la consanguineità sia sempre più rara. Hanno la loro associazione (ufficialmente riconosciuta 32 anni fa), il loro statuto, una presidente nazionale e molte presidenti diocesane, un giornale, raduni annuali, seminari, incontri formativi, qualche udienza pontificia, appuntamenti con i cardinali. E una missione per conto di Dio: vegliare sul benessere del loro «don», curarne il domicilio e la persona, appoggiarlo nel suo ministero e collaborare alle sue incombenze quotidiane, sostituendolo eventualmente, con tatto e discrezione, durante le sue assenze. Nei loro compiti rientra, perché no, anche quello di alleviarne la solitudine e di prestare orecchio ai suoi umani momenti di dubbio o di sconforto, amministrando — richiesto o non — qualche saggio consiglio.
Manzoni, forse, troverebbe che, nella cruda sostanza, poco è cambiato dalla sua descrizione di Perpetua. Ma, tanto per cominciare, il nubilato non è più da molto tempo un requisito indispensabile: «A una donna moderna non si può augurare una vita dedicata al cento per cento. Può capitare, ma è sempre meno frequente. Si è passati dal tempo pieno al part-time, anche in canonica», sorride Anna Cavazzuti, la presidente nazionale della categoria, che sì, purtroppo è riconosciuta in lenta via d’estinzione: «Abbiamo 1.700 abbonate in Italia alla nostra rivista, probabilmente qualcuna sfugge al nostro censimento, ma il numero sta diminuendo». Dopo una giornata a fianco del suo anziano sacerdote, o in sagrestia a sbrigare pratiche amministrative e ricevere i fedeli, Anna rientra nel suo piccolo appartamento non lontano dal centro storico di Modena: «Non lo vivo come un lavoro invisibile — dice —. Il mio fare, il mio pregare è per la Chiesa».
Angela, custode di nome e di fatto di un altro parroco nel Modenese, si avvicina invece di più alla figura tradizionale: «Avrei voluto famiglia e figli. Non ho avuto né uno né l’altro. A 50 anni ho abbassato le braccia e il Signore mi ha raccattato». La «chiamata», ricorda, è arrivata quattordici anni fa, nell’anno giubilare: «Ero rimasta vedova e sola, ma fino a quel momento non ci avevo mai pensato: mio papà era un comunista, anche se la mamma ci portava in chiesa, e non sono certo cresciuta in un ambiente favorevole alla vocazione».
A differenza di Giovanna Guastella che va per i 78 anni e, da quando ne aveva 17, nel ’53, si è votata alla cura del fratello Giorgio, con il quale vive tuttora, entrambi pensionati dopo quarant’anni di missione congiunta nella Cattedrale di Ragusa: «Sono l’ultima di dieci figli e i sentimenti cristiani, quelli nostri antichi, li abbiamo ricevuti dalla famiglia — racconta, senza rimpianti —. Sono trascorsi oltre 60 anni, ero molto giovane e volevo semplicemente accudire il mio fratello preferito. Mi vestivo con modestia, le maniche lunghe, le calze sempre, perché non bisognava che in paese si guardasse la sorella del prete. Poi ho capito che non ero stata io a decidere. Dio mi aveva fatto un dono, chiamandomi al servizio di un suo ministro. Però non ho mai cercato di fare il viceparroco e la Perpetua del Manzoni non mi piace: è un’intrighina. Ora nella nostra associazione, qui in Sicilia, ci sono molte mamme di sacerdoti: ma quanto possono durare?».
Se lo chiede anche Annamaria, di Piacenza, in canonica al servizio del figlio: «La più anziana di tutti noi è la Madonna. Svolgo il ruolo di qualsiasi mamma: ascoltare, consigliare, cogliere i momenti di stanchezza. Ma lo aiuto anche a capire meglio il mondo dei laici». Mamme o no, le italiane non garantiscono più una presenza stabile: «Subentrano le straniere — osserva Anna Cavazzuti —. E molti preti preferiscono, alla familiarità con una parrocchiana, un rapporto chiaro e meno coinvolgente con qualcuno che svolge un lavoro domestico e se ne va». Conferma da Busto Arsizio Eliana Marcora, presidente di circa 400 familiari del clero nella diocesi di Milano: «I giovani sacerdoti spesso ci vivono come una figura materna non richiesta e che pretende di vigilare su di loro. Però poi quando gli viene la febbre e non hanno nessuno attorno, capiscono». Il «suo» parroco, don Giuseppe Corti, è da 50 anni sacerdote e da 11 in carica alla parrocchia di San Michele Arcangelo: «Il loro è un ruolo prezioso, che non deve scomparire, perché è un carisma della Chiesa. Non sono tate, né serve, né governanti». Eliana è stata per 40 anni direttore amministrativo in una scuola, si è sposata e ha messo al mondo quattro figli prima di essere — come racconta lei ridendo — «circuita» sette anni fa: «Inizialmente non volevo essere coinvolta. Dopo un anno ero già responsabile diocesana».
E le straniere? Le nuove «perpetue» arrivano soprattutto dall’Est. Moldave, ucraine, polacche, assomigliano assai poco alla capostipite manzoniana: con i suoi 42 anni, i capelli biondi e gli occhi azzurri, la russa Nadia Efimova avrebbe probabilmente indotto i legislatori del passato a rivedere, al rialzo, l’antica disposizione che fissa l’età canonica a 40 anni (minimo). Originaria di Kazan, nella regione del Volga, a 800 chilometri da Mosca, verso la Siberia, Nadia non ha scelto di lavorare in un’impresa di pulizia di Saronno, sei anni fa, per vocazione. Ma quando è arrivata al suo datore di lavoro la «chiamata» dall’Istituto Padre Luigi Maria Bianchi, dove vive una comunità di cinque o sei frati, non le è parso vero: «Sono ortodossa sì, ma ogni mattina alle 6 prima di cominciare a lavorare, entro in cappella a pregare: che sia davanti a un’icona o a una scultura della Madonna, per me, è lo stesso. E adesso questa è diventata anche per me una missione». Da cui si stacca a fine orario, per tornare dal suo bambino. Tutti i giorni, domenica esclusa. Quel giorno Padre Aurelio e i suoi confratelli cucinano da soli: «È il giorno degli avanzi — ride il frate —, ma molto è cambiato oggi anche nella percezione di quello che un prete può o non può fare da solo. Come andare a fare la spesa, per esempio», ed estrae dal cassetto la sua tessera dei punti fedeltà del supermercato. Non tutte le familiari del clero approverebbero: «Ma è vero che oggi si evangelizza anche andando per negozi e al bar» si rassegnano Angela e Annamaria.
Peccato che due secoli separino irrimediabilmente l’illustre romanziere e poeta da Anna, Angela, Annamaria, Giovanna, Eliana, Nadia ed Ermanna, impedendogli di incontrarle personalmente. Ecco, Ermanna, per esempio. Che scende di buon passo da un sentiero sui monti dell’Appennino modenese, scusandosi con un sorriso per essersi fatta attendere: «Stavo confessando — spiega allegramente —. Sì, ma io non do l’assoluzione», si affretta a precisare, divertita. È grazie a Ermanna se i 136 abitanti di Sasso Morello, frazione di Prignano sulla Secchia, a quattro chilometri da Serramazzoni, hanno ancora una parrocchia, San Bartolomeo Apostolo, che apre ogni mattina. E un «confessore», benché ufficioso, che li ascolti: «Confesso anche per telefono», scherza Ermanna, che da quasi sette anni, da quando è morto don Luigi, l’ultimo parroco di Sasso Morello, manda avanti da sola la chiesa e sorveglia il «gregge», su precisa richiesta del vescovo di Modena. Apre i battenti alle 6 del mattino, per consentire agli uomini che passano a svuotare i cassonetti di entrare a dire una preghiera, e chiude «quando va via il sole».
Confessare per davvero non può, ma distribuire la comunione a domicilio, sì. Come ministro straordinario, quando va a trovare i malati, ogni settimana. In fondo non c’è abbastanza lavoro qui, per inviare un nuovo sacerdote, con la penuria di preti di cui soffre attualmente la Chiesa: l’ultimo matrimonio si è celebrato oltre tre anni fa e per i pochi funerali arriva all’occorrenza don Antonio, parroco di Serramazzoni e di riferimento per Ermanna: «È giovane, ha 35 anni. Litighiamo, perché a volte dice che bisognerebbe chiudere la parrocchia. Ma poi facciamo pace. Comunque finché ci sono io, questa chiesa non sarà sconsacrata». Ci mancherebbe: era il 24 agosto del 1957, festa di San Bartolomeo Apostolo, per l’appunto, quando Ermanna, che aveva appena 9 anni, intuì la sua vocazione, alla festa per l’arrivo del nuovo giovane parroco, don Luigi. Ma sarebbero passati vent’anni, durante i quali lei lavorò «nella ceramica a Sassuolo», prima che l’inossidabile coppia si saldasse in canonica per altri 30: «Per me, quando lo vedevo sull’altare, don Luigi era più importante del presidente della Repubblica».