Andrea Bonzi, L’Unità 9/4/2014, 9 aprile 2014
FALLIMENTI E PRECARIETÀ IL NORD EST CAMBIA FACCIA
La periferia di Treviso è un cimitero di enormi scheletri. Capannoni industriali abbandonati e centri commerciali realizzati e mai inaugurati si alternano sulla strada provinciale e dall’uno all’altro lato è un susseguirsi di cartelli «vendesi», «affittasi». È un pezzo di Nord est che si ferma, si svuota e si arrende alla crisi: impensabile, solo qualche anno fa, che potesse accadere in uno dei territori a più alta densità imprenditoriale. Nel solo Trevigiano ci sono 1.000 aree industriali su 95 municipi.
Quella che un tempo era considerata la «locomotiva d’Italia» si sta fermando, perde pezzi sotto il martellare continuo di chiusure di aziende e negozi, delocalizzazioni, licenziamenti, ricorsi massicci ad ammortizzatori sociali. Nel terzo trimestre dell’anno scorso (dati Unioncamere), in Veneto hanno abbassato le serrande 5.730 imprese, mentre in Trentino e in Friuli le chiusure sono state complessivamente 2.500, equamente divise tra le due regioni. Un’epidemia trasversale a molte categorie - dall’edilizia alla meccanica (basti pensare alla vertenza Electrolux), dall’artigianato agli store di abbigliamento - che, dal 2009, ha lasciato per strada decine di migliaia di lavoratori, spesso over 45, con scarse possibilità di ricollocamento.
Persone come Antonio, 46 anni, falegname alla Gvm, di Monastier nel Trevigiano. Un’azienda con 34 lavoratori, da dieci anni sul territorio nel ramo dei rivestimenti. Nel 2012 cominciano ad arrivare tardi gli stipendi, partono le lotte. «Ci dicevano che i clienti non pagavano - spiega Antonio, accompagnato da una dei suoi tre figli - l’azienda è fallita, ma intanto poi gli stessi titolari ne hanno aperta un’altra con alcuni dipendenti. E intanto noi siamo stati mesi senza cassa integrazione». Di trovare un altro posto non se ne parla: «Curricula ne ho mandati tanti, mi è stato chiesto di lavorare in nero,ma ho rifiutato, pagavano una miseria», continua l’artigiano.
Già, il «nero». Una parte del benessere di questi territori è dipeso anche dall’evasione fiscale, e la proverbiale abnegazione al lavoro nella terra dei «metalmezzadri» ha generato mostri: aziende con una doppia contabilità - bianca e nera - e operai pagati solo per una parte delle ore lavorate, il resto «fuori busta». Se a questo si aggiunge che «molti padroncini hanno investito nel suv o in un appartamento sul litorale, invece che mettere soldi in azienda per crescere», confida una sindacalista, ecco che il quadro assume contorni più netti.
Lo tsunami ha investito grandi (Safilo e Ideal standard, ad esempio) e piccoli, seppur con modalità ed effetti diversi. In Veneto, la potente dinastia dei Benetton sta facendo da anni i conti con la crisi. A inizio 2014 il gruppo aveva confermato l’intenzione di lasciare a casa oltre 200 lavoratori diretti (in tutto sono circa 1.500). Ai primi 44, legati ad alcuni marchi soppressi (come Playlife) e localizzati nel quartier generale di Ponzano, il sindacato è riuscito a far applicare l’intesa che, un anno fa, aveva già affrontato il nodo di 206 esuberi.
Un accordo che, oltre agli ammortizzatori sociali, prevede incentivi all’esodo (fino a 42mila euro lordi), contratti di solidarietà e corsi di formazione, che hanno già portato alla ricollocazione di 32 addetti. L’intesa contiene una clausola anti-esodati: «Ai lavoratori a cui mancano 5-6 anni alla pensione, l’azienda si impegna ad alternare 6 mesi di lavoro ad altrettanti di mobilità, fino alla maturazione dei requisiti - spiega Andrea Guarducci (Filctem- Cgil) - E se cambiano le regole, il gruppo si farà carico dei contributi fino ad altri 20 mesi». Ma la valanga non si arresta: entro la fine di dicembre, il piano Benetton prevede che oltre 40 punti vendita abbassino le serrande.
Tutele che, nonostante gli sforzi, è difficile far applicare a quella fitta rete di contoterzisti che realizzano capi d’abbigliamento per griffe come Belstaff, Versace e la stessa Benetton. Sono tagliati fuori per la dimensione troppo piccola e per costi troppo alti per il mercato globale. Difficile entrare in questi microlaboratori, «perché chi parla poi teme conseguenze e la perdita di commesse importanti», racconta Wilma Campaner (Filctem- Cgil). «Si tratta di aziende che spesso hanno uno o due dipendenti, più il titolare - continua Campaner - Negli anni pre-crisi, le grandi case hanno fatto capire che ci sarebbe sempre stato lavoro. Li hanno spinti a fare investimenti, ad assumere. E poi li hanno mollati, delocalizzando all’estero». Un rosario di “piccole morti” che non fa notizia e un esercito di lavoratori «di serie B, che il territorio non può assorbire perché troppo vecchi e difficilmente riconvertibili su altro – chiosa la sindacalista - Così scatta lo scoraggiamento ». Forse non è un caso che il Triveneto abbia il record di suicidi tra piccoli imprenditori.
Una depressione che Giacomo Vendrame, il più giovane segretario di una Camera del lavoro in Italia, intende contrastare. Guardando al futuro, senza dimenticare il passato. L’immagine dell’assise trevigiana è quella dello sciopero del canapificio di Crocetta del Montello: volti di altri tempi, uomini, donne e bambini, immortalati in una foto virata al seppia al termine di un’azione collettiva vittoriosa, partecipata da 2.200 persone. «Non possiamo dimenticare la nostra identità - spiega Vendrame - perché se perdi quella, poi finisci per affidarti a movimenti come quello dei forconi e ai sentimenti antieuropeisti che qui sono diffusi». Certo, il quadro è desolante: «Nella sola provincia di Treviso in cinque anni abbiamo perso 28mila posti di lavoro, e abbiamo quasi 50mila addetti in cassa integrazione, mobilità o solidarietà - elenca il segretario - Il modello del Nordest è in crisi, non si sta più rigenerando. E per fare una contrattazione che provi ad allargare la base occupazionale servirebbe un supporto delle istituzioni, della Regione guidata da Zaia in primis, che non vediamo».