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 2014  aprile 09 Mercoledì calendario

VITA ESAGERATA DI UN CATTIVO (MA BRAVO) RAGAZZO


Gualtiero Jacopetti è morto nel 2011. A 92 anni. Dopo aver seppellito quasi tutte le persone che gli avevano voluto male per almeno mezzo secolo. Un libro (anzi, molti libri) sulla sua vita esagerata era nelle comuni previsioni. Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo (Edizioni Il Foglio, pp. 340, euro 16) forse non è il primo della lista, ma non sarà certamente l’ultimo. Troppo esagerata la vita, troppe feroci polemiche per almeno 60 dei 92 anni di Jacopetti in questo mondo. Per avere un’idea della ferocia basta dare un’occhiata alla quarta di copertina del volume. Una decina di pareri (sull’uomo e sui film) tutti a opera di vip e tutti sprezzantemente negativi. Il disprezzo accomuna critici liberal e borghesi come Giovanni Grazzini, socialisti (Lino Micciché), comunisti (Callisto Cosulich) e femministi (Pauline Kael). Una vera Onu della contumelia.
Ma chi era in realtà Jacopetti Gualtiero da Barga (Garfagnana)? Stefano Loparco, l’autore del libro, non lo spiega. Credo non voglia spiegarlo. Scrittore innamorato dei personaggi del cinema (sua è una biografia di Edwige Fenech), Loparco non giudica, non tira le somme. Non chiarisce Jacopetti, né il suo rapporto con le figure paterne della prima fase della sua carriera (Indro Montanelli, Angelone Rizzoli), né ci illumina sui perché delle rotture improvvise (e mai chiarite) coi suoi compagni di strada dei documentari a sensazione (Paolo Cavara e Franco Prosperi).
Loparco, più che un biografo, è un appassionato, certosino archivista. Ha recuperato tutto (o quasi) quanto scritto sul personaggio e ha legato i vari capitoli in buona prosa. Lasciando ai lettori non Jacopetti, ma un bel po’ di strumenti per capirlo.
Quel che abbiamo compreso lo potremmo riassumere in meno di dieci parole. Un cattivo ragazzo di buona famiglia, dai 20 ai 90 anni. Nato in un clan borghese, lanciato nella professione dal più grande giornalista borghese del secolo (Montanelli), nel cinema da uno dei patriarchi della ricca borghesia italiana (Angelone Rizzoli), Jacopetti passò la vita a liberarsi freneticamente dei lacci delle sue origini. A trent’anni capisce che quel mondo che lo ha partorito e allevato è pieno di tabù. «Proibito da chi?», sembra chiedersi ogni volta che fonda un settimanale o un cinegiornale o inizia un film. E puntualmente viola un divieto, spalanca porte che nessuno osava nemmeno sfiorare.
Ha poco più di 30 anni quando parte con la direzione di un settimanale, Cronache, che è l’esatto contrario dei rotocalchi che hanno preso appena piede. Oggi illustra un’Italia bella, già quasi miracolata, e lui in Cronache butta dentro un servizio fotografico su una strage avvenuta in un cinema, e in un paginone centrale una 19enne Sophia Loren come in Italia non s’è mai vista coi capezzoli di fuori... Oggi viene adottato come riferimento nelle scuole di giornalismo, mentre Cronache finisce in tribunale e poi sequestrato a vita.
Fine Anni Cinquanta, quando Gualtiero trova un’altra occasione per passare oltre i confini del proibito: i cinegiornali. Che come sono stati fatti fino a quel momento sono una vera provocazione per uno come Jacopetti. La settimana Incom e Mondo libero partono con un onorevole che taglia un nastro, i gol di una partita dell’Inter o del Milan, le riprese di una festicciola da dolce vita con Alberto Sordi che s’ingozza di tartine. Bene, in Ieri oggi e domani (il suo cinegiornale) Jacopetti mette in scena le stesse persone. Ma l’onorevole è inquadrato con la patta aperta, l’asso del calciomentre si rivolge al pubblico mettendo la mano sinistra sull’incavo del braccio destro. E nel commento si specifica che Sordi addenta le tartine quando scopre che si può abbuffare gratis.
Nello stesso periodo Jacopetti fa un altro incontro della vita, sempre con un grande personaggio borghese, Alessandro Blasetti. Il glorioso veterano ha appena dimissionato Europa di notte, antologia dei migliori numeri da night club di fine anni ’50. Belle musiche, belle donne, una vera gioia per gli occhi. Ma per l’uomo della Garfagnana, che pure ha partecipato alla sceneggiatura, è una vera provocazione. «Il mondo non è solo bello, ma è pieno di cose, brutte, sporche cattive, che il cinema non rappresenta mai perché così la gente si illude che non esistono». E parte in tromba con Mondo cane.
Il film è tra i maggiori incassi del 1963. E nonostante l’orrore che suscita nelle anime belle (tra le lepidezze, lo squartamento di un maiale), è premiato a Cannes e vince un David di Donatello. Nessuna forza al mondo, a questo punto, potrebbe impedire al produttore Rizzoli di insistere nel filone e a Jacopetti di farsi intrappolare nei sequel. Nel 1966 arriva l’altro grande pugno nello stomaco: Africa addio, l’opera che procurerà al regista le due accuse che lo accompagneranno tutta la vita: razzista e fascista. Questo perché Africa addio ha il coraggio di dire che nel Continente Nero la fine degli imperi coloniali ha dato il via a una storia senza fine di bagni di sangue. Non sbaglia. A quasi 50 anni di distanza le carneficine continuano. Ma dirlo nel 1966 è da fascisti. Questo perché tutti o quasi tutti speriamo (o sogniamo) che gli africani, scrollatisi i gioghi coloniali, siano pronti per diventare democrazie all’occidentale. I fascisti italiani che le colonie le rimpiangono adottano subito Jacopetti senza chiedergli il permesso («Io sono un liberale, il mio maestro è stato Montanelli», protesta lui, ma nessuno gli dà retta).
Intanto, Mondo cane ha fatto scuola. Decine di registi si buttano nelle savane alla ricerca di uomini e animali filmati nel corso di orribili morti. Ma nessuno li insulta, nessuno si scandalizza. Perché sparare su Jacopetti è cosa bella e democratica, infierire sugli epigoni poco gratificante. A partire dagli anni ’80 l’ex ragazzo terribile tira i remi in barca. Fa quello che ha sempre fatto. Viaggia, ama (tante donne), dipinge, gira documentari (per la tv giapponese). Vede il sorgere del nuovo secolo e fa in tempo a constatare i guasti della globalizzazione, che aveva ampiamente previsto con decenni d’anticipo. Chiude nel 2011 la sua avventura terrena non come l’aveva sempre vissuta, da borghese rinnegato, ma come un vecchio gentiluomo dell’800. «Seppellitemi nel cimitero inglese», è la sua ultima volontà. Perché era lì che da 50 anni giaceva l’attrice Belinda Lee, l’unica donna che lui riconosceva d’avere amato...