Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 9/4/2014, 9 aprile 2014
“IO E IL MIO TEATRO TRA PACEMAKER E DON CHISCIOTTE”
SELEZIONAXX
Senatore De Filippo… Caro Biagi anche a lei dico: “Non chiamatemi senatore, ci ho messo una vita a diventare Eduardo”.
D’accordo. Ricorda quando andò in scena la prima volta?
Avevo quattro anni la prima volta che sono salito alla ribalta con un vestitino da cinese: uno splendore abbagliante. Ero a Roma al teatro Valli, ero piccolo e sbigottito. Mi portarono in scena all’ultimo momento. La recita è luce, è sorpresa. Per anni ho recitato in teatrini popolarissimi. Mi ricordo che le rappresentazioni erano continue e il pubblico indisciplinato tentava di entrare sempre, c’era un impresario che pigliava l’idrante dei pompieri e innaffiava il pubblico urlando: “Uscite, uscite”. Biagi sa perché ho questa voce un poco velata, afona?
No.
Allora al teatro Rossini di Napoli – oggi è diventato un cinematografo – avevo un camerino scavato nella montagna, molto umido, i vestiti, che cambiavo durante i tre spettacoli che facevamo, erano sempre bagnati dall’umidità. Per questo mi andò via la voce che allora era molto squillante. Forse è stato un bene perché mi ha dato una voce molto particolare, che è diventata la caratteristica della mia recitazione.
Suo padre, Eduardo Scarpetta, quanto ha influito
sulla sua vita artistica?
Eduardo Scarpetta ha riformato il teatro napoletano, con lui è cominciato un nuovo filone continuato da Viviani e poi da De Filippo e non è finito ancora. L’amore per il teatro non me lo ha trasmesso per ragione di sangue. Assolutamente no. Attraverso l’ammirazione che ho avuto per lui.
Nel copione “Le voci di dentro”, nonostante sia
stato scritto nel ’48, c’è tutta l’angoscia di oggi, i
cattivi pensieri, i sospetti. Zi’ Nicola, lo strampalato personaggio che si è chiuso in se stesso, non
parla, comunica con gli altri a botti, a razzi, una
specie di essenziale alfabeto Morse che non concede nulla alla divagazione; è un pensatore dei
“bassi” che ignora di aver scoperto l’incomunicabilità.
Io osservo, osservo continuamente. Allora ero più forte. Buttai giù il copione in diciassette giorni, lavoravo di notte, di fila. Il dovere sa. A scrivere Questi fantasmi ci misi sei giorni. Subito lo feci leggere a Titina che mi disse che era bellissima ma le dava tristezza: “Il teatro è fatto per gli uomini, la donna è soltanto un appoggio, un cuscinetto”. Le promisi che avrei aumentato la sua parte perché lei aveva solamente il secondo atto, poi il copione rimase due anni in un cassetto. In dodici giorni scrissi Filumena Marturano. Il primo atto in una notte, poi mi fermai al secondo atto, non riuscivo ad andare avanti, poi quando mi venne l’idea lo scrissi in tre giorni, il terzo lo finii in due notti. Feci la sorpresa: invitai tutti a un pranzetto, e lessi le mie pagine. Alla fine, silenzio, Titina mi baciò le mani e piangeva. Quando si è cresciuti in palcoscenico, si è frequentato una scuola rigida, che non ti fa guardare in faccia a nessuno: si deve fare, e così è. Quando facevamo il varietà, lavoravamo in camerino, negli intervalli, e la testa rimbombava dei dialoghi e dei sospiri dei primi film sonori. Con Titina ci siamo voluti veramente bene. Ci siamo reciprocamente ammirati. Titina è rimasta sempre con me.
Con Totò, oltre ad aver lavorato insieme, eravate
molto amici.
Totò era del rione Sanità, io lì andavo a scuola, ci vedevamo spesso anche prima di lavorare insieme. Quella era la Napoli dei napoletani, della gente umile, dei venditori, dei negozi di cibarie. Qualsiasi cosa Totò toccasse diventava incantata. Aveva una sensibilità straordinaria, era un grande osservatore. Le maschere napoletane e la nostra commedia dell’arte sono passate attraverso Totò.
Che cosa rappresenta per lei Pulcinella?
Pulcinella è una maschera universale non solo napoletana, non rappresenta la caricatura di un uomo, ma dell’uomo.
La gestualità napoletana cosa rappresenta?
Io ho sempre pensato che la ragione che ci ha portati a mimare ogni cosa che diciamo, sia dovuta alle tante dominazioni che abbiamo avuto. La nostra gestualità è data dalla necessità di esprimerci, di farci capire senza l’uso della parola. Come avremmo fatto a comunicare con turchi, spagnoli, tedeschi, francesi, non potevamo mica ogni volta imparare la lingua.
In un’intervista lei ha detto: “Non me ne importa niente di sapere che cos’è l’aldilà”. Perché?
Non è un fatto che mi riguarda. Sarebbe una cosa molto importante, per cui avremmo dovuto avere qualche ragguaglio, indipendentemente delle esplorazioni scientifiche e filosofiche, invece lasciamo senza che ci venga un segno qualsiasi per darci un orientamento, e allora è come spingere un muro, una piramide, si fa troppa fatica.
Da che cosa nasce la sua amarezza?
Oggi, se dovessi prevedere qualcosa, sarei ottimista. E le dico la ragione: perché i giovani capiscono, e le generazioni non si susseguono ogni vent’anni, o quindici, ma con maggiore rapidità. Due o tre fanno già differenza. I più piccoli vengono su con idee molto avanzate, in meglio, credo. Il futuro, secondo me, verrà salvato dai ragazzini, come dice Elsa Morante, e dalle donne che, al contrario dei maschi, esercitano una politica indipendente da qualunque tradizione. Verrà il meglio, ma questa alba non mi sarà dato di vederla; ci vorrà molto tempo. Mi è stato riservato di combattere i mulini a vento, come un don Chisciotte.
Che cosa trova nell’uomo, di migliorato, e di peggio?
Peccati intollerabili sono la vanità, l’invidia e la debolezza di carattere. Qualità buone, lo spirito di adattamento, ma non la rinuncia, la comprensione dei difetti altrui, ma non l’accettazione.
Ho incontrato il presidente Sandro Pertini. Gli ho
chiesto: “Era peggio il ’45 o oggi?” Peggio oggi,
mi ha risposto. C’è un’altra Napoli, un’altra Italia? Quale?
Diversa soprattutto perché abbiamo preso coscienza, e allora le manchevolezze mi appaiono più evidenti. Abbiamo capito. Allora, si era pieni di attesa, siamo ricaduti negli stessi errori, sfiducia, disistima, dal disprezzo alla voce di dentro. Una parola buona spesa in quel momento di euforia, di fede nel futuro, ora sarebbe anacronistica, da ridere.
C’è chi la definisce un piccolo borghese per il suo
desiderio di pulizia, di rispetto dei sentimenti. È
un giudizio che la soddisfa?
Luigi Compagnone lo dice. Forse lo è lui, e allora vede così anche me. Io mi rivolgo alle masse e questo senso di nitore, questa voglia di moralità è un’aspirazione al bene comune. Nelle mie commedie non dico mai: “Io parlo di problemi”. Anche Compagnone nei suoi libri fa la stessa cosa, e lo ammiro per questo.
I suoi eroi, invece, sono quasi sempre dei falliti,
degli umiliati, sul piano sociale, e degli anarchici
su quello delle scelte.
È giusto: il seme della libertà nasce con l’uomo. Filumena Marturano, per esempio, è il simbolo dell’Italia: tre figli, tre condizioni umane. E poi la lotta: del resto, buoni non si potrà mai esserlo del tutto. No, non è stato facile imporre un repertorio, un modo di essere, tra le quinte e anche fuori. Quando diedi Filumena ci fu chi scrisse che era un’opera ignobile. Non mi sono mai arrabbiato per la critica, ho appreso molto dagli attacchi. Il critico del Corriere della Sera, Renato Simoni, aveva garbo. Ma adesso siamo divisi: chi recensisce da una parte, gli interpreti dall’altra, in fondo si lavora tutti insieme. Una volta non era così. In teatro non si vede più nessuno. Io facevo mattina a discutere con Orio Vergani, con Silvio D’Amico. Gli artisti, quelli moderni, non parlo di me, quelli che vengono dall’Accademia, si sono tagliati anche i ponti col pubblico, sono freddi. Il saluto non è più come si usava, c’è
una certa alterigia. Si ringraziava ogni fine d’atto, significava rispondere con cortesia, senza lasciare attendere inutilmente.
Come nasce in lei una storia?
Chi lo sa. Dall’attenzione, dall’esperienza, dallo spirito di ricerca. Basta un’idea, non tante, e lavorarci sopra. Quando non c’è, si ricorre alle trovate.
Se dovesse spiegare a un giovane che vuol fare l’attore che cos’è il teatro, cosa direbbe?
Lo sforzo disperato che l’uomo fa nel tentativo di dare un senso alla propria vita. Se a un giovane dovessi indicare un programma, suggerirei la pratica, perché il teatro porta alla vita e la vita porta al teatro. Non si possono scindere le due cose. Cerca la vita e troverai la forma, cerca la forma e troverai la morte. L’umanità, attraverso i fatti che si evolvono continuamente, e che si trasformano, ci fornisce modelli che ci sorprendono sempre: nuovi, pazzi, imprevedibili che ci danno i personaggi. Le parole cambiano, i rapporti si trasformano. Il teatro dialettale è stato sempre impegnato da indicare al pubblico le manchevolezze, certe amarezze che ci circondano e trovare il modo per risolverle e per convivere al meglio. Come può finire il teatro? Una volta io ho detto che fino a che ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno finto sul palcoscenico.
Quando ha capito che il teatro era la sua vita e
che lo avrebbe fatto per sempre?
Molto tardi, perché mi affannavo a convincere gli altri, che mi sconsigliavano. Piano piano cominciai a capire che quella sarebbe stata la mia passione. Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri nella vita recitano male.
Lei è religioso?
A modo mio. Io so che mi trovo qui per una ragione, e questo è già sufficiente. Se non mi è stato spiegato perché sono venuto, vuol dire che non lo devo sapere.
Quando si è sentito affaticato, e le hanno messo
il pacemaker al cuore, cosa ha pensato? Ha avuto
paura?
No, no. Anzi, non volevo applicarlo, mi sembrava di forzare la mano alla natura, se me ne debbo andare, basta; poi mi sono abituato ad accettarlo, qualcosa da dire l’avevo l’ancora, infatti. Filumena Marturano dice: “Sto piangendo. Quanto è bello piangere”. E l’uomo quando è solo e prova sgomento fa la stessa cosa. Lo fa troppo spesso, quindi non si può distinguere se c’è una ragione seria, o emotività e debolezza.
Co s ’è stato il successo?
Un premio alla mia fatica, continua, ossessiva, da ragioniere.
C’è qualcuno fra i contemporanei che ammira?
Molti, non uno solo, e non soltanto nel mio mestiere, e fra questi Carmelo Bene, perché mi piacciono le sue opinioni, come si esprime, come si ribella, come si accetta. Poi Proietti, che ho stimato da quando era alle prime armi. Ho amato molto Pier Paolo Pasolini, un poeta straordinario. Era un uomo adorabile e indifeso. Ora che non c’è più la sua voce è ancora più alta. Con il tempo anche chi lo ha attaccato, chi gli era oppositore, comincerà a capire quello che lui ci ha voluto dire.
Anche di suo figlio Luca parlano bene.
C’è tempo per vedere se è bravo. Meno male che lo dicono gli altri. Quando nacque, Lucio Ridenti mi chiese: “Gli farai fare l’attore?” Io risposi di sì, perché anche se non dovesse riuscire, e rimanesse soltanto un generico, il teatro gli offrirebbe sempre il modo di essere libero.
Perché l’uomo vuole recitare?
È come le scimmie, che hanno il gusto dell’imitazione. Le hanno viste che si mettevano fiori e raffia addosso, e ballavano. Ma se è vanitoso, è solo uno che ha la faccia tosta di salire in alto, su delle assi inchiodate, per farsi vedere. L’artista è un’altra cosa.
Se non avesse fatto l’attore cosa avrebbe voluto
fare?
Non ci posso neanche pensare, forse non sarei nato.
Che sogni fa?
Dei palcoscenici, sempre. Inventati. Uno tutto di vetro, anche la scena di cristallo, gli attori potevano vedere lo spettacolo senza essere scorti dal pubblico. Sogno di arrivare in ritardo, stanno già per alzare il velario, tutto contribuisce a farmi rallentare, non sono truccato, non trovo il cappello, allora mi sveglio. Uno cominciava in un quartiere di Napoli, e finiva, naturalmente, in teatro. Avevo messo Titina in un camerino tutto di merletti. Una specie di delirio, forse. Quasi-modo mi diceva: “Tu fai le didascalie con due o tre aggettivi. Che te ne fotte?” Ma di questo ho vissuto. n