Maurizio Molinari, la Stampa 9/4/2014, 9 aprile 2014
SIRIA, IL SENTIERO SEGRETO DEI PROFUGHI “MORTI DI SETE PER FUGGIRE DALL’INFERNO”
Raghda Abdel Kader, 40 anni, e i suoi nove figli, di cui due infermi. Mohammed al-Hariri, 46 anni, e i suoi cinque figli. Hillale, 80 anni o forse 90, con il bastone, accompagnata dalla nuora. Hassan el-Shara, 55 anni. Nur 22 anni e un figlio. Sono i profughi che varcano la frontiera siriana a Ruwayshid, nel nord del deserto giordano, quasi a ridosso dell’Iraq. Lo fanno poco dopo le 23, in una notte senza luna perché gli garantisce protezione. Gli ultimi km prima del confine sono a cielo aperto e temono di essere bombardati da una delle fazioni protagoniste della guerra civile.
È un gruppo di 523 anime. Le forze di sicurezza giordane li hanno visti arrivare da oltre 10 km di distanza, grazie al sistema di sorveglianza hi-tech, basato su videocamere e radar, realizzato lungo i 375 km di confine. Consente di monitorare ogni centimetro di una frontiera disseminata di varchi, costituita solo da un piccolo fossato. È grazie a questa barriera elettronica, simile a quelle create da Israele lungo i confini con Gaza e il Libano, che l’esercito hashemita ha bloccato una ventina di infiltrazioni jihadiste, e in almeno un caso i terroristi sono stati eliminati.
Il timore degli sconfinamenti armati spiega perché i due punti di frontiera a Jaber e Ramtha, a ridosso dei centri abitati nel Sud siriano, sono stati chiusi oltre un anno fa - quando gli ingressi erano 3000 al giorno - e da allora l’unico accessibile a chi fugge è il lontano Ruwayshid nel mezzo del deserto. Per i profughi significa un percorso lungo e disseminato di pericoli. Raghda parla di «sei giorni a piedi», Mohammed di «sedici giorni di cammino». Quando mettono piede nel regno di Abdallah II sono coperti di polvere, carichi di pacchi, stanchi al punto da barcollare.
Il primo incontro è con i militari giordani che gli danno il «cibo del benvenuto» - acqua, riso, biscotti calorici - e poi li esaminano uno ad uno. Domina il timore delle infiltrazioni: di spie di Assad e soprattutto di jihadisti perché almeno 500 giordani combattono nelle fila di Al Nusra, emanazione di Al Qaeda, e del sanguinario Stato Islamico del Levante e dell’Iraq (Isis). I controlli sono lunghi, minuziosi, vengono ripetuti più volte. Al termine i profughi sono indirizzati in autobus militari con tre destinazioni. Quasi tutti i civili vanno a Rabbat Sarhan, i soldati disertori partono per il «campo segreto» a nord di Amman e poi c’è una minoranza di civili che viene portata nel campo costruito dagli Emirati Arabi.
A Rabbat Sarhat i pullman guidati dai militari si fermano davanti ad altri soldati, che ripetono i controlli sull’identità, usano gli scanner per cercare armi ed esplosivi - alcune donne li nascondevano sotto le vesti fingendosi incinte - e quindi consentono ai profughi di essere accolti dai team dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni che li curano e vaccinano. «Lavoriamo 24 ore su 24, ricevendo circa 600-700 profughi al giorno», spiega David Terzi, l’italiano nato a Modagiscio che guida le operazioni.
È questo il momento in cui i rifugiati parlano della fuga dalla Siria. Raghda piange senza interruzione: «Non ho più marito, casa, campi, mi restano solo i figli». Mohammed parla di «morte, rovine, la Siria uccisa dalla guerra». Vicino a lui la 22nne Nur, stringe la figlia piccola al petto: «Non tornerò mai in quell’inferno». Sono tutti uomini maturi, donne o bambini piccoli. Vengono da villaggi contadini attorno alla città sunnita di Daraa, dove iniziò la rivolta anti-regime, ma nessuno pronuncia il nome di Bashar Assad. Parlano invece dei «bombardamenti subiti con i missili lanciati da tutti» come dice Mohammed nell’assenso generale. Hassan el-Shara, 55 anni, spiega che «i civili in armi ci hanno sradicato gli olivi e distrutto i raccolti non lasciando alternativa alla fuga».
Dopo tre anni di guerra, in molti hanno sperato che Assad potesse farcela a ripristinare la stabilità «ma quando hanno iniziato a bombardarci con razzi e missili ce ne siamo andati» spiega el-Shara. I riferimenti alla violenza dei ribelli sono impliciti ma costanti, tradiscono l’appartenenza a settori della popolazione sunnita rimasta in bilico fra le parti o non ostile ad Assad. E spiegano il silenzio assoluto su questi temi con i militari giordani, nel timore di essere etichettati come fiancheggiatori del regime.
Ironia della sorte vuole tuttavia che per arrivare a Ruwayshid i profughi abbiano dovuto pagare miliziani ribelli, spesso dell’Esercito di liberazione, perché sono loro ad accompagnarli lungo quello che Mohammed definisce il «sentiero segreto» ovvero un percorso nel deserto capace di evitare combattimenti e agguati. A chi può pagare di più offrono anche auto per trasportare malati e anziani, tutti gli altri vanno a piedi. Hassan racconta: «Siamo rimasti senza cibo, mangiavamo la Hobesa», una pianta del deserto ritenuta commestibile.
Superati i test medici dell’Omi, i profughi vengono accolti dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, schedati dai giordani - con la lettura dell’iride - e ricevono tessere alimentari prima di essere inviati nel campo di Zaatari, dove al momento vivono circa 80 mila anime. Il pullman che li porta da Rabbat Sarhar a Zaatari passa vicino al «campo segreto» dei disertori, dove le presenze sono già 3000-3500 e, secondo alcuni fonti locali, potrebbero trasformarsi nel contingente di protezione dei corridoi umanitari per consegnare aiuti alle popolazioni assediate.
L’«Emirates-Jordan Camp» è altrettanto top secret ma per motivi assai diversi: è il personale giunto dal Golfo a gestirlo, offrendo a 5000 rifugiati un gioiello di organizzazione con supermercati, luoghi di culto, elettricità e cibo a volontà. Non è però chiaro come gli Emirati selezionino gli ingressi e ciò innesca voci impossibili da controllare, incluse quelle sulle «ragazze più giovani e belle invitate nel campo con le famiglie».
A conti fatti sono oltre 600 mila i profughi siriani già in Giordania. In gran parte si sono già mischiati ad una popolazione molto simile, per fede e tradizioni. Ma c’è anche chi torna indietro: un centinaio di persone al giorno, attirate dal desiderio di rivedere case e campi, oppure dalla volontà di combattere a fianco di una delle fazioni, a cominciare dall’Esercito di liberazione che in Giordania ha basi e uffici.