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 2014  marzo 09 Domenica calendario

PARAGUAY, ESERCITO DI BIMBI

Gerardo Vargas Areco ha 15 anni quando è reclutato dalle Forze ar­mate. È il 26 gennaio 1989. Qua­si un anno dopo, il 30 dicembre, un proiettile gli trafigge le spalle. Muore sul colpo. A sparare, il sottufficiale Aníbal Ló­pez Infrán. Gerardo cercava di fuggire dalla caserma, il tiro avrebbe dovuto spa­ventarlo, non ucciderlo, ha dichiarato Ló­pez Infrán. Sul corpo della vittima, però, ci sono varie lesioni, bruciature, il viso è sfregiato. Qualcosa non torna. Non è un episodio del celebre romanzo “La città e i cani”, in cui il Nobel Mario Vargas Llo­sa racconta gli abusi e le violenze perpe­trati in un collegio militare di Lima, a metà del Novecento. È la realtà attuale del Paraguay rurale. Dove i bambini so­no arruolati illegalmente dall’esercito e, spesso, non lasciano mai più la caserma. Lo dimostra il rapporto appena diffuso dal Servizio pace e giustizia Serpaj, orga­nismo di ispirazione cristiana per la di­fesa dei diritti umani diffuso in gran par­te dell’America Latina. Che ha comin­ciato ad indagare proprio a partire dal “caso Vargas Areco”. Per scoprire che si tratta solo uno dei tanti.
Tra il 1989 e il 2012, nelle caserme para­guayane sono morti «misteriosamente» 147 minori. I più piccoli avevano 12 an­ni. In media, uno ogni due mesi. Questi, però, sono solo le vittime che hanno fat­to in qualche modo rumore sulla stam­pa locale, perché la loro vicenda è stata particolarmente inquietante. Come quel­la di Darío Vera Portillo, 17 anni nel 1 994, quando era nel Reggimento di Infanteria n°1. Dopo una punizione, la gamba sini­stra si è infettata ed è andata in cancre­na: si è spento dopo mesi di sofferenze. O di Cándido Ramírez, 18 anni appena compiuti ma con oltre due di servizio mi­litare alle spalle. Sarebbe inciampato e il machete che portava alla cintura l’a­vrebbe trafitto, secondo il colonnello E­duardo Ramón Sosa. La stessa sorte è toc­cata poco dopo al coetaneo Feliciano Ve­ra. Poi ci sono i ragazzini morti in com­battimento. O di freddo. Intossicati dal­le stufe a gas o assassinati dalla loro stes­sa arma che non riescono a utilizzare.
Le storie raccolte sono eloquenti quan­to poche. Il resto del dramma rimane “sommerso”. «Il nostro rapporto non vuole essere un elenco unico e definiti­vo – spiegano da Serpaj –, vuole solo da­re qualche contenuto in più su ognuno di questi episodi». Gli archivi militari so­no inaccessibili e anche se venissero di­vulgati dei “baby soldati” non ci sarebbe traccia. Poiché ufficialmente non ven­gono censiti. La ragione è chiara: l’arti­colo 129 della Costituzione fissa tassati­vamente a 18 anni l’età della leva, peral­tro obbligatoria. Prima non se ne parla. O meglio non se ne scrive nei documen­ti formali. Eppure la pratica dell’arruola­mento coatto di bambini, dai dieci-do­dici anni in avanti è costante nelle cam­pagne: le aree più emarginate di un Pae­se già allo stremo. I militari vanno di vil­laggio in villaggio e propongono alle fa­miglie contadine di affidare loro i figli per addestrarli o per compiti di bassa ma­novalanza. «Ne faremo uomini», affer­mano e, soprattutto, «avranno vitto e al­loggio ». Anche le bambine vengono in­gaggiate come domestiche in cambio di un piatto di riso, una forma di sfrutta­mento definita “schiavitù” dall’Organiz­zazione mondiale del lavoro.
Chi arruola un minore, rischia la so­spensione dalle Forze armate per cinque anni: finora però la normativa non è sta­ta mai applicata. L’impunità consente al fenomeno di ampliarsi. Alcune fonti, a­scoltate da un gruppo di ispettori della Commissione Interamenricana nel 2001, avevano testimoniato che oltre metà dei soldati di leva erano minorenni. Tredici anni dopo – denunciano fonti locali at­tendibili – non sembra essere cambiato molto. Anzi. Un esempio: solo sei dei 147 casi raccolti dal Sepaj si sono conclusi con una condanna. Tra questi, quello di Gerardo. Altri 141 bimbi non hanno a­vuto ancora giustizia.