Antonio Gnoli, la Repubblica 9/4/2014, 9 aprile 2014
GIULIANO MONTALDO
Gli uomini di cinema, quelli che ho conosciuto, amano invecchiare con le loro donne. Sentirle vicine. Ascoltarne i passi lenti nella casa. Vederne il sorriso indulgente o la parola che compensa il ricordo. Sono strane consigliere. Dure e lievi al tempo stesso. Discrete e imperiose. Non trovo insolito che la prima cosa che Giuliano Montaldo dice, mentre mi guida verso il suo studio, sia che la sola persona che abbia contato veramente nella sua vita è Vera Pescarolo, la compagna, la moglie, la consigliera a volte paziente a volte tranchant: come quel giorno che gli proposero di girare uno spaghetti-western. «Ero tentato. Vera mi guardò. Ne sei convinto? Mi chiese. Poi, dopo una pausa molto teatrale, aggiunse: tu fallo e io me ne vado di casa».
Ricorda cosa le proposero esattamente?
«No, ho solo l’immagine perentoria di mia moglie. E di me con la coda tra le gambe a dirle: non ti preoccupare, non sia mai che faccia un film di cassetta. Allora il cinema era soprattutto questo. Gli anni Sessanta e Settanta furono il trionfo dei generi: mitologico, western, poliziesco, le commediole sexy».
E lei niente. Puro, come il diamante.
«Ma no. Bisogna essere dei veri artigiani, come Sergio Corbucci, o dei grandi, come Sergio Leone, per trasformare un film di genere in una perla rara. Una volta Leone mi propose di girare in “unità due” alcune scene da un film western, che per vicissitudini varie Damiano Damiani non era riuscito a completare. Sergio ne era il produttore. Quando lo vidi dietro la macchina capii che mai avrei potuto imitarlo. Troppo diverso. Troppo bravo. Perciò rinunciai. Però ho sempre pensato con gratitudine a certi registi di “cassetta”. Loro sono stati i veri martiri della qualità».
Cosa vuol dire?
«Significa che prendevano un pallino dalla critica e cinque dal pubblico. Ma senza quel fiume di soldi, che facevano entrare nelle tasche dei produttori, noi, quelli più esigenti, non avremmo girato nulla ».
Come è nato il suo rapporto con il cinema?
«Fu abbastanza casuale. Vivevo a Genova, dove ero nato. E per curiosità avevo cominciato a recitare a teatro. In una di quelle sere mi vide Carlo Lizzani che stava preparando il casting per Achtung! Banditi!
Mi offrì la parte del commissario politico. Accettai. Avevo vent’anni. Senza quell’occasione forse sarei finito a fare il portuale o lo spedizioniere. Invece, mi ritrovai catapultato in un mondo nuovo».
Le piaceva?
«Abbastanza. Assaporato il frutto proibito, il cinema, dovevo solo decidere il passo successivo. Andare a Roma. Non fu semplice».
Perché?
«Non c’erano soldi. La guerra si era portata con sé il suo corteo di disperazione e di fame. Ricordo le bombe. I morti. Con i miei ci rifugiavamo nei tunnel della città. Tornando da uno di quei ripari scoprimmo che la nostra casa era stata distrutta da un’incursione aerea. Ricordo l’abbraccio disperato tra i miei. Il pianto e papà che diceva alla mamma: “Non ti preoccupare, ricostruiremo tutto”».
Cosa faceva suo padre?
«Aveva fatto parecchi mestieri. Alla fine fu preso come factotum in uno studio di avvocati. Insomma, i soldi erano pochi e se volevo viaggiare, trasferirmi a Roma, sapevo che non potevo pesare sui miei. Quel po’ che guadagnai con il film di Lizzani, insieme a 35mila lire che mi prestò mia sorella Ines, fu investito per il mio sbarco nella capitale ».
Che anno era?
«Arrivai a Roma alla fine del 1950. La città brulicava di pellegrini. Pensavo a mia madre che voleva che mi facessi prete. Ma la città, al di là della patina di sacro, era un luogo di tentazioni continue. Passavo da una pensione all’altra. Ma costavano troppo. Alla fine Lizzani mi suggerì di rivolgermi a una signora che affittava le camere. “Giulià, se sei carino con lei quella te fa dormì gratis”, disse strizzando l’oc-
chio».
Andò?
«Andai. Era alta un metro e trenta. Cattivissima e arrapatissima. Dovetti scappare di notte, dopo un assedio durato qualche giorno. Finii nell’appartamento di Gillo Pontecorvo.
Un porto di mare. Intanto Lizzani mi chiamò per interpretare
Cronache di poveri amanti.
Mi attaccai a lui perché volevo capire com’era il mestiere di regista. Fu molto generoso. E quando Gillo cominciò a girare i suoi film mi prese prima come segretario di edizione e poi aiuto regista. Dopo un paio di anni si presentò l’occasione per un film tutto mio».
Che anno era?
«Il 1961. Il film fu un fiasco. Stroncato dalla critica. Sia di destra che di sinistra. E disertato dal pubblico. E pensare che era stato portato a Venezia».
Cosa non aveva funzionato?
«Raccontavo la storia di un giovane, di famiglia fascista, che decide di aderire alla Repubblica di Salò. Per poi scoprire che la patria era dall’altra parte. Per me fu un dolore incredibile vedere come il film fosse trattato. Si chiamava
Tiro al piccione.
E io mi sentivo come quel povero volatile. Per alcuni anni cancellai le mie aspirazioni. Mi convinsi che non ero adatto al cinema».
E quanto è durata questa crisi?
«A lungo. Anche il secondo film, che aveva come spunto il boom economico, si arenò al botteghino.
Una bella grinta,
era il titolo, fu invitato al festival di Berlino e ottenne un premio speciale. Era il 1965. Forte di quel riconoscimento, un produttore, rischiando i propri soldi, mi propose un film internazionale. Una coproduzione in cui recitavano il grande Edward G. Robinson e Janet Leigh. C’era anche uno strano tedesco: Klaus Kinski».
Strano perché?
«Suscettibile e temutissimo per le sue intemperanze. Un piantagrane quasi quanto John Cassavetes, con il quale feci il film successivo:
Gli intoccabili».
Una storia americana?
«Una storia di mafia. Molto prima del Padrino. Cassavetes era famoso per essere uno che non finiva mai i film degli altri. Con me all’inizio fu abbastanza disciplinato. Si sentiva un genio. E per certi versi lo era. Girava con tutto il suo clan. La moglie Gena Rowlands, Peter Falk. John era gelosissimo di Gena. La tampinava ovunque. Non ho mai capito perché un uomo certamente intelligente, un vero animale di cinema, con alle spalle un film come Ombre si riducesse alla stregua di un volpino isterico».
Forse era solo insicuro.
«Conosceva l’arte di rendere infelici le persone che gli stavano accanto. Insopportabile».
Lei dà l’idea di essere un ottimo incassatore.
«Non sono mai andato al tappeto, se è questo che intende. Già la vita è troppo dura perché uno la debba complicare con atteggiamenti da super divo. Sono nato con le montagne alle spalle e il mare davanti. E quell’orizzonte che si apriva davanti ai miei occhi mi ha insegnato che per navigare occorrono doti niente affatto speciali. Occorrono pazienza e umiltà e tolleranza. È quello che ho cercato di trasferire nei miei film migliori».
Ritiene il cinema una fabbrica di messaggi?
«È anche questo. Quando girai che tra i motivi di quel film c’era anche l’impellenza di raccontare cosa fosse l’ingiustizia. Come l’America, un paese democratico, un campione di libertà e di diritti, avesse potuto spedire alla sedia elettrica due anarchici innocenti. Non fu facile, glielo assicuro».
Perché?
«Sia perché non trovavo un produttore. Ricordo che il primo a cui proposi di farlo mi guardò stupito e poi disse: “Sacco e Vanzetti? Che roba è, una ditta di import-export?”. E sia perché nel 1970 non era semplice raccontare, con la guerra in corso nel Vietnam, cosa era stata l’America degli anni Venti».
È diventato una specie di film-manifesto.
«Certo, contro l’intolleranza. E il merito va anche a un attore straordinario come Gian Maria Volonté, Col quale collaborai un paio di anni dopo per la realizzazione del
Giordano Bruno».
Che ricordo ne ha?
«Ho lavorato con tanti attori — alcuni come Noiret, Manfredi, Cucciolla, Giannini bravissimi — ma nessuno aveva la capacità di Gian Maria di identificarsi totalmente con il personaggio. Si trasformava. Si lasciava intrappolare. Da lui ho imparato l’importanza che riveste il silenzio. E la mimica. Più delle parole. Sapeva dire “ti amo” oppure manifestare un tormento o un odio con un semplice movimento degli occhi. E poi è morto. Troppo presto. Lasciando rimpianto e dolore».
Come si reagisce al dolore?
«Il rimedio sarebbe di affidarsi a Dio. Ma chi non crede che fa? A quale sportello deve rivolgersi? Non lo so. So che non mi piace soffrire. È una delle ragioni per cui non riguardo mai i miei film».
Che sofferenza le provocano?
«Se rivedessi un mio film coglierei solo i difetti, o tutto ciò che, per condizioni avverse, non si è potuto realizzare».
Un po’ come accade nella vita.
«A volte mi chiedo se io abbia vissuto solo per il cinema e abbia inseguito solo quel sogno».
Che risposta si è dato?
«Temo che sia andata proprio così. Il cinema ha avuto la meglio. Non mi dispiace. Intendiamoci. Ma è come essersi privati di altri occhi, di altre braccia. Di altre occasioni. Da giovane sapevo che il cinema era anche un fatto di benessere. Di riscatto. Sapevo che era quello che volevo. Invecchiando diventi come quei giocatori che corrono da fermi. Scopri che molto di ciò che pensi e dici è una pantomima».
Intende dire che potevano esserci alternative al mestiere di regista?
«Non ho fatto tantissimi film. E quelli che ho realizzato ho dovuto faticare per imporli. Per convincere i produttori. Non è un mondo facile. Ma alla fine so che quel mondo era il solo che potevo esplorare».
Come un Marco Polo.
«Molto in piccolo. Ma è così. Mi viene in mente che quando girai quel lungo sceneggiato per la televisione facemmo molte riprese sui luoghi del suo avventuroso viaggio. E, in mezzo a certi spazi infiniti, tra le steppe, scoprii che i mongoli non conoscevano il significato della distanza. Non sapevano distinguere tra “vicinanza” e “lontananza” ».
Perché le torna in mente questo dettaglio?
«Perché anche il cinema è così: ha abolito le distanze. Tra le immagini, tra gli uomini, tra i sogni, tra le storie. Tutto è prossimo a noi. Ecco perché il cinema è diverso dalla vita. La vita, quando scorre e passa, crea distanze. È come se si allontanasse da noi. Mi accorgo che la mia è piena di vuoti. Di persone che non ci sono più. Pontecorvo e Volonté; Mastroianni che è stato il più meraviglioso antidivo che abbia conosciuto; Lizzani, il più generoso e storico tra i maestri; Monicelli, il più adorabile burbero; Petri, il più severo tra gli amici. Mi mancano. Come mi mancano Flaiano e Fellini, Risi e Zavattini».
Che stagione è stata quella del suo “vuoto”?
«Fu la Roma nella quale arrivai come un marziano e ce ne volle di tempo perché lo stupore, la meraviglia, lo spaesamento si trasformassero in una qualche forma di sicurezza. Roma era la città del “circa”, del “se vedemo”. Dell’approssimazione. La prima volta che presi un appuntamento da Rosati, giunsi puntuale alle nove del mattino. Dopo un paio d’ore, temendo che fosse accaduto qualcosa, chiamai la persona che dovevo incontrare e questa mi disse: alle nove, sì, ma di sera».
Cosa è cambiato oggi?
«Dovrei dire: tutto. Ma a che serve? Roma è diventata una città piena di inconvenienti. Ma è il mondo, è banale dirlo, che sta cambiando. Sospetto in peggio».
E il cinema?
«Quello di casa mi pare mostri qualche risveglio. Ci sono registi eccellenti. Come Paolo Sorrentino e Matteo Garrone. Personalmente ho un debole per Nanni Moretti che considero il più sorprendente tra quelli che amo».
E invece tra i suoi film quali ama di più?
«Tra i miei? Non ho un buon rapporto con i miei film. I film più belli sono, in fondo, quelli che non ho realizzato. Quelli che ho inseguito, messo a punto, predisposto e poi, per qualche ragione, non sono riuscito a fare».
È l’atto mancato.
«Ciò che avrei potuto fare e non ho fatto.
Le crea ansia?
«No, l’ansia la riservo per altre cose. Invecchiare è assistere al proprio cedimento. Questo mi provoca un po’ d’ansia. Eppure, da un po’ di tempo, sento crescere in me, una specie di tranquilla sicurezza. Non vorrei che fosse una forma di rincoglionimento».