Michele Masneri, RivistaStudio.com 9/3/2014, 9 marzo 2014
ROMA SORRENTINA
(Puntata 1) -
La Grande Bellezza è come il maiale, non si butta niente, e dunque oltre a questo pezzo lungo d’occasione, ecco tanti spinoff in libreria (La Capria, La bellezza di Roma, Mondadori, addirittura con cappello panama-Gambardella su fondo bordeaux, in collana Libellule; un Costantino D’Orazio strategico, in ebook, a due euro e novantanove, La Roma segreta della Grande bellezza, Sperling & Kupfer), con spiegazioni e divagazioni e emozioni d’epoca e live a orologeria: dunque la Galleria Spada famosa per le prospettive ingannevoli (giochino architettonico di un Borromini molto Wes Anderson, è cortissima e sembra lunghissima, perché costruita con soffitti che scendono e pavimenti che si alzano, e adesso ci vogliono fare vicino un bel parking sotterraneo per il consiglio di Stato, le sovrintendenze protestano per le “fontane del Seicento” nel giardino di palazzo Spada, e l’architetto Lolli-Ghetti dice «veramente le ho disegnate io negli anni Ottanta», e insomma è una sceneggiatura già fatta per una GB buttata in caciara); e poi il palazzo Sacchetti dove i nobili immaginari Colonna di Reggio nella GB abitano nello scantinato; è in realtà uno dei palazzi più belli di Roma, i Sacchetti sono tra i pochi marchesi del Baldacchino, cioè romani non proprio principi ma con papi in famiglia dunque con upgrade a trattamento principesco, e appunto baldacchino obbligatorio in salotto sempre pronto nel caso lo zio papa passasse per un caffè in tempi pre-Nespresso. Vabbè.
Però sul quartiere sorrentiniano vero, niente: neanche festeggiamenti per il nuovo genius loci (farà salire le quotazioni, si chiedono tutti, la famosa statuetta, in un quartiere ormai a palese gentrificazione attoriale – ci stanno, oltre a Sorrentino, Matteo Garrone e Claudio Santamaria, l’altro premio Oscar sceneggiatore Sergio Monteleone, e più giù off via Merulana addirittura Willem Dafoe e la moglie Giada Colagrande, che son stati anche rapinati, qualche tempo fa, in una loro casa molto prestigiosa che dà su palazzo Brancaccio e sullo studio di un primario chirurgo estetico; come in una serializzazione molto americana del Pasticciaccio (Defoe poi è bassissimo e deluse molto, quando lo si incontrò a un bancomat, di sera, armeggiando con la carta, si pensava a un bambino).
Qui, comunque, nessuna festa neanche da capodanno cinese per il ritorno di Sorrentino. Business as usual tra i molti parrucchieri cinesi accusati di usare lacche piombate, ma forse è solo diceria di concorrenti romani ormai fuori mercato; siamo all’Esquilino, uno dei sette colli, stretto tra la stazione irredimibile di Roma Termini, il rione Monti, San Giovanni. Una volta qui naturalmente era tutta campagna, fino all’arrivo dei piemontesi che volevano farci una specie di Corso Como o Porta Nuova per dirigenti in carriera appena spostata la capitale, e naturalmente, per l’eterogenesi dei fini, crearono Quarto Oggiaro Sul Tevere. C’è un sito, e un blog, tra i più seguiti, che si chiama Degrado Esquilino, e racconta e fotografa scempi e obbrobri e buche di questo rione affacciato sulla via Merulana, con edifici umbertini tra i più eleganti, e parchi sontuosi (piazza Vittorio Emanuele II, per i romani semplicemente Vittorio, che potrebbe essere la più bella di Roma se non ci fossero gang africane e afrori di Tavernello accaventiquattro e smottamenti nell’arredo urbano); e piazza Dante, con sede storica delle Poste trasformanda nella nuova sede dei Servizi Segreti, e ogni tanto qualche morto tossico nel parco davanti.
«Non vado mai a Roma. Mi sembra Nairobi» ha detto Flavio Briatore in una intervista recente sul Foglio, e in effetti la prima volta che si andò in Kenya con amici bresciani inorriditi ci si trovò invece perfettamente a casa, pensando proprio alle buche dell’Esquilino, molto più profonde. Degrado Esquilino racconta “la grande monnezza” giornalmente fotografando cartelloni abusivi, cassonetti divelti, barboni en plein air, anche con tocchi di poesia: «Si son tenuti i mercati del fetido, del rubato e del cibo avariato», scrive un post con una metrica molto giusta. Eppure l’Esquilino continua ad affascinare con la sua torinesità perduta, la sua decadenza ready made già scritta negli stucchi e negli archi, un This Must Be the place per le sorti magnifiche e depressive di un paese alle prese con guerre di Crimea più alla nostra portata. Quartiere di lotte di classe anche feroci. I locali si chiamavano anticamente esquilini per diversificarli dagli inquilini, cioè gli abitanti della città. Dentro il parco di piazza Vittorio c’è la Porta Magica, antico stipite divelto dalla casa di un amico della regina Cristina di Svezia che in tempi di bling ring romani pre-Dolce Vita e pre-trenini si divertiva molto, e qui con iscrizione alchemica sulla porta dove si spiegherebbe una sorta di ricetta Herbalife per trasformare il fieno in oro; ma nessuno ci è mai riuscito, e però d’estate si va al cinema all’aperto, nel parchetto, ed è romantico.
La prima e unica volta che si conobbe Sorrentino fu a una festa improbabile di Natale, una vigilia, si venne convocati insieme a una amica di zona, che aveva appena comprato casa nei dintorni, molto vituperata da amiche di quartieri altoborghesi, che poi chiedevano, sinceramente: «Ma qui, in taxi, ti ci vengono, poi?». Era una festa pomeridiana di auguri di Natale, e l’amica aveva appuntamento con una amica che pure non si presentò. Si entrò subito però in un appartamento Esquilino in purezza; nei palazzi cioè porticati della piazza Vittorio, sorta di trasposizione parigina-torinese, ma con declinazione romana-kenyota, con antiche insegne gozzaniane di latta (olii, coloniali, materassi), e marmi anneriti dalle cicche e dalle sigarette, si salì in un ascensore ex signorile con ferri battuti e stucchi ai soffitti cadenti e impolverati, si entrò finalmente in questo grande appartamento, con la sorpresa di trovare tutto un pubblico molto eterogeneo: la casa, arredata molto all’antica, chincaglierie e bibelot, e passamanerie e pon-pon alle serrature dei mobili, e soprattutto molte foto con dedica di Sua Maestà Umberto II, prima e dopo l’esilio, dediche, poi si scoprì, al padrone di casa, un signore almeno ottantenne che divideva l’appartamento molto Cascais con un fidanzato poco più che maggiorenne, e tedesco. E gli invitati erano dunque soprattutto di tre gruppi, ottuagenari tendenzialmente monarchici; ventenni molto moderni; signore tedesche, molte di stanza nella piazza. Con un’organizzazione molto nordica, ognuno portava qualcosa, dunque molte birre tedesche, molti prosecchi a basso costo e dai nomi improbabili, tipo “Castello Malvolti”, e tappo a corona; e patate, e bibite tipo Ben Cola; e molto senso di community; «ma stamattina non ti ho visto dal fiorista», e «ma perché non l’hai preso da Roscioli, il pane» (Roscioli è l’establishment della panificazione romana, ha diversi rami, uno cadetto sta a piazza Vittorio, è il Dean & De Luca dell’Esquilino, con cassonetti davanti); sotto i ritratti di Umberto, tra questi gruppi e queste chiacchiere («sembra il battesimo di Rosemary’s Baby, si disse subito naturalmente») Sorrentino sembrava divertirsi molto, e si era in una classica atmosfera da “quella Roma non esiste”, come da critica standard al film. E usciva a fumare sulle scale. E però si parlava molto di certe piastrelle e finestre della loro casa sulla piazza, e poi si scendeva sotto i portici, molto battuti ultimamente, dove diverse banche aprivano sedi soltanto per stranieri.