Angelo Carotenuto, la Repubblica 9/4/2014, 9 aprile 2014
ANGELO BRANDUARDI
ROMA Le canzoni italiane erano fatte d’acqua azzurra, acqua chiara e piccoli grandi amori. Oppure avevano locomotive in fiamme e il profilo di Saigon, avevano zingari felici. Finché è arrivato Branduardi, di nome Angelo, flauto dolce e violino, uno che vestiva di musica le parole di Esenin, citava Calvino e si ispirava a Musil. Bum. Sono quarant’anni che è qui, a vivere la sua scena come un’anomalia, «non per provocazione, non per scelta, è stata questa musica a venire da me».
È seduto in poltrona, la pipa accesa, gli occhi che fissano il vuoto per scavare dentro la memoria. «La prima volta che ho composto avevo diciassette anni. Musicai Dante». Canticchia. «
Tanto gentile e tanto onesta pare, la donna mia quand’ella altrui saluta…
Ho sempre cercato suoni naturali, poi l’unplugged è diventato una moda. Sono stato fra i primi, con Maurizio Fabrizio. Ricordo un concerto in Francia, gli spettatori gridavano “in piedi, in piedi”. Volevano vedere il violinista che saltava». Branduardi è così. Puoi restare un’ora a parlarci del Concilio di Nicea e dell’eresia dei Catari, e da qualche parte dentro lui ci trova sempre un po’ di musica. «Prendiamo il Vangelo di Giovanni, il più mistico dei quattro. La frase iniziale è stata difficile da interpretare. In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Ecco. La parola “verbum” in aramaico significa “suono”, o qualcosa di simile. Tutte le cosmogonie dei popoli primitivi partono da questo assioma. Creature sonore e splendenti diventano materiali e opache quando a loro viene dato un nome. Ha ragione Morricone: è l’arte più vicina a Dio. Prima viene la musica, poi la parola».
Tutte le note di Branduardi sono una catena, una lunghissima lauda allo spirito, alla ricerca del soffio vitale. Marco Mangiarotti, critico musicale, disse che è come l’aglio: o ti piace o non ti piace. L’ultimo disco, Il rovo e la rosa, ha per sottotitolo: Ballate d’amore e morte.
Ballate “Elisabettiane”, una ripresa del discorso avviato nel 1986 con il disco su Yeats. «Arrangiamento è una parola orribile, si preoccupa di aggiungere. La mia invece è musica per sottrazione. Cerco il vuoto, al contrario dei barbari che ne avevano terrore. La musica è guardare oltre una porta chiusa, perdere il senso del tempo e dello spazio. Togliere certezze ritmiche e armoniche». Sta portando il suo violino in giro per l’Europa, partenza dalla Germania, tutto esaurito all’Olympia di Parigi, tra poco in Italia (il 26 a Torino e il 29 marzo a Roma) «In realtà da bambino avrei voluto studiare pianoforte. Vengo dai vicoli di Genova, i caruggi.
Abitavo a via della Maddalena, la strada decumana che taglia l’angiporto e che prosegue verso via del Campo, poi via di Pré. Prostitute, contrabbandieri, gente che entrava e usciva di galera, ma mia madre non ha mai chiuso la porta di casa. Si mangiava quel che usciva dal porto con il contrabbando. Per un mese solo banane, poi arrivava la carne congelata dall’Argentina e per un mese si andava avanti solo con la carne. Infatti odio banane e carne. Ma è stata un’infanzia bellissima ». Bellissima, eppure senza pianoforte. «Abbiamo avuto l’acqua in casa che ero piccolo, il Comune lanciò delle iniziative per i bambini disagiati della zona, nella mia scuola c’era il pianoforte. Mio padre non suonava, ma era un melomane, gli dissi che avrei voluto studiarlo, però costava troppo. E poi in casa non entrava. Mio padre conosceva qualcuno che insegnava al conservatorio Paganini di Genova. Andammo dal maestro Augusto Silvestri, che aprì una scatola e mi fece vedere un violino tirolese del ’700. Fui colpito dal colore e dall’odore. L’odore della cera. I violini antichi sono stati suonati per centinaia d’anni alla luce delle candele. Dissi: “È lui”». Amore totale. «Il pianoforte adesso lo considero una macchina per scrivere, i pianisti mi perdonino, non ho una grande passione. L’ho studiato come strumento complemen-tare, passai l’esame perché volevo togliermelo dai piedi». Solleva mignoli e indici nell’aria. «Oggi il piano lo suono così, soltanto per armonizzare mentre compongo».
Tutta questa dedizione alla musica con i coetanei è stato un problema. Un grande problema. «Coetanei? Da bambino non ne avevo. Il più piccolo con me al conservatorio era Angelo Costa junior, figlio del grande armatore, dieci anni più di me. Giocare a pallone non potevo: si rovinano le mani. Giocare a pallavolo lo stesso. Farsi le pippe uguale. L’unica cosa che i miei mi lasciavano fare era il nuoto, ho il diploma di “Squaletto” del Coni. Due volte ho avuto delle crisi di rigetto, per fortuna mio padre mi convinse a non smettere. Gli devo tantissimo. Ho scoperto che esistevano le donne soltanto a sedici anni, quando siamo arrivati a Milano». L’infanzia gli ha lasciato un’altra eredità visibile. I capelli. «Erano ingovernabili. Mia madre cominciò a farmi le banane, lei le chiamava così: cioè arricciava i boccoli, li avvolgeva all’ingiù. Non ho mai più cambiato. Ho solo desiderato per anni che diventassero bianchi, finalmente ci siamo».
L’icona del menestrello è nata in questo modo, la conoscono pure i bambini, insieme al “cane che morse il gatto e si mangiò il topo”.
Alla Fiera dell’Est.
La musica colta che parla all’infanzia. «Prendi un bambino delle materne o delle elementari, gli fai il mio nome e certamente non sa chi sono. Ma quando gli canti il topolino, be’ allora col topolino cambia tutto. Eppure è una ballata terribile, drammatica, con il macellaio che uccide il toro, l’angelo della morte. È stato un successo enorme pure in francese, è sui libretti, sui canzonieri per bambini. Così come la Ballata in fa diesis, un brano che comincia: “Sono io la morte e porto corona”. Parte la canzone e tutti a fare gli scongiuri, i bambini no. Perché hanno un senso differente della morte. Hanno reso Alla Fiera dell’Est popolare. Da tempo quel brano non è più mio, il che mi garantisce — con un po’ di immodestia — l’immortalità».
Nessuna nostalgia per le hit parade. «È tutto così cambiato. Non voglio fare il reduce, ma ho avuto la fortuna di vivere l’epoca d’oro. Dagli anni ’70 agli anni ’90. Il ventennio più proficuo della musica nel mondo. Quando il Disco d’oro arrivava per 500mila copie vendute. Adesso te lo danno a 12.500, una volta su 12.500 copie ci sputavi sopra. Essere in hit parade oggi significa aver venduto quattro dischi». In casa Branduardi non ce ne sono di suoi. «Ho i nastri incisi, sono di mia proprietà. Ma dischi no, forse mia moglie li terrà da qualche parte, io non li ho mai visti. Ogni tanto ne chiedo qualcuno, la casa discografica mi spedisce delle copie perché io ne regali. Devo averne fatti tanti, forse, non lo so. Ho riascoltato quello su Yeats poco prima di partire per questa tournée, per capire come all’epoca avevamo ricostruito quella polifonia. In genere quando ne pubblico uno, lo sento una volta al giorno per dieci giorni, poi mai più. Lo troverei insopportabile». Il primo uscì nel ’74, quando Branduardi aveva ventiquattro anni, fresco ancora di lezioni in classe con il poeta Franco Fortini. «Credevo che da musicista mi sarebbe servito saper parlare inglese, francese e tedesco. Ma il liceo linguistico era a quei tempi privato, non potevo permettermelo. Trovai perciò un compromesso iscrivendomi all’Istituto tecnico statale per il turismo. E guarda tu: chi è il professore di italiano? Fortini. Alcuni di noi avevano con lui un rapporto come con un maestro di bottega. Lui ci portò in classe Pasolini ed Enrica Collotti Pischel, mi ha fatto conoscere tutto. Un giorno passa tra i banchi e mi lascia un bigliettino. C’era scritto: “Non perdetelo il tempo ragazzi, non è poi tanto quanto si crede, date anche molto a chi ve lo chiede, dopo domenica è lunedì”. È diventato il testo di una mia canzone. Tutte le volte che rientravo a casa dopo una tournée passavo da lui. Fino al giorno in cui è morto».
La musica italiana che oggi Branduardi ascolta è un elenco scarno di figure. «Mi piace Battiato, mi piace Paolo Conte. Direi basta. Altri nomi non me ne vengono in mente». Nell’ultimo disco, tra le ballate rinascimentali proposte, spunta pure la Geordie cantata da De André. «La eseguo in modo rigoroso, filologico, con l’arciliuto, poche notine di improvvisazione. Fabrizio lo conoscevo bene, ci siamo sempre stimati, anche se frequentavamo ambienti molto diversi. Lui era figlio di uno degli uomini più ricchi di Genova, io di uno dei più poveri. Non c’è mai stato modo di fare qualcosa insieme. Solo una volta ricevetti una telefonata da Dori Ghezzi. Ne ho un vago ricordo, penso fosse il periodo in cui stavo fuori per sei mesi. Anche se musicalmente c’è troppo Brassens per chi Brassens lo conosce, credo che La Buona Novella sia il disco più bello mai fatto in Italia».
E comunque a Branduardi l’aglio piace. «Lo metto dappertutto. Da un po’ a Genova si sono messi in mente di fare il pesto senza l’aglio. Ma diventa una spremuta di basilico. Fa schifo».