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 2014  aprile 09 Mercoledì calendario

IL RESTAURO AI TEMPI DI LASER, ROBOT E GEL


A Paola Donati piacerebbe ricevere in regalo «un robottino». Se esistesse, lo spedirebbe dentro i Bronzi di Riace per raggiungere l’unico punto dove non è riuscita a far arrivare il video endoscopio, il sondino del trapano e l’ablatore a ultrasuoni: nel braccio piegato dei due divi di Reggio Calabria. «Troppe curve, oltre il gomito quei due sono ancora pieni di terra di fusione da portare via». Terriccio del V secolo a.C. che minaccia di rimettere in moto la corrosione del metallo. Donati e Cosimo Schepis — restauratori rispettivamente dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (Iscr) di Roma e della Soprintendenza archeologica della Calabria — del lavoro sui Bronzi parleranno al Salone del restauro che si terrà a Ferrara dal 26 al 29 marzo. I loro colleghi dell’Opificio pietre dure di Firenze — con l’Iscr uno dei maggiori istituti al mondo per la ricerca e la formazione in questo settore — illustreranno invece i progressi con il laser sui bronzi rinascimentali di Donatello e Ghiberti. Ma anche sulla fibra di cui sono fatti gli Achrome di Piero Manzoni: «Sono fragili opere degli anni Sessanta, impossibile usare solventi liquidi: si sarebbero sciolte. La pulitura con il raggio laser è stata invece indolore e perfetta» dice Marco Ciatti, soprintendente dell’Opificio.
Sui metalli e sulla pietra il laser fa miracoli. Sui dipinti su tavola e su tela è invece un tabù. «A livello di sperimentazione, bisogna muoversi in direzione di lunghezze d’onda diverse dall’infrarosso o verso regimi d’impulso, ossia la durata, non convenzionali: ma è ancora troppo presto» spiega Alessandro Zanin, responsabile dell’area “Light for art” di El. En Group, una delle quattro-cinque società al mondo che produce laser per restauratori. Dunque un raggio verde per liberare gli oli e le antiche tempere da alterate colle, vecchie e recentissime: potrebbe essere questo il domani del restauro. E senza danni collaterali per l’odo
pera. Ma non tutti seguono questa strada. Anna Maria Marcone preferisce la gelatina. La restaturatrice dell’Iscr, nel laboratorio del San Michele a Roma, ha da poco concluso la pratica dell’Arrivo a Colonia di Sant’Orsola di Carpaccio. Per liberare il telero del ’400 da pesanti ridipinture fatte nel 1983, si è affidata al gel di Gellano: «Sta su anche sulla tela in verticale, contiene il solvente, ed è trasparente: puoi così osservare mentre si imbeve della parte da asportare senza intaccare la pittura sottostante e senza liberare nell’aria sostanze tossiche nocive per noi». Già, c’è anche lo stato di salute dei restauratori da tenere sott’occhio. Il tema sarà al centro di un convegno organizzato in Vaticano per il 20 marzo. Ulderico Santamaria, capo del Gabinetto di ricerca scientifica dei Musei Vaticani, racconta: «Ci stiamo occupando dei batteri coltivati appositamente per divorare le vecchie colle e i dannosi polimeri usati per trent’anni. Ma anche della linea di ricerca che estrae dalle alghe sostanze utili per il consolidamento dei dipinti: sono stabili e non fanno male all’uomo. L’unico problema è che sono care». Vengono dal Giappone e costano 140 euro al grammo. «Però ce ne sono di simili, anzi migliori, nel mare del Lazio. E così abbiamo deciso con la Sapienza di provare a coltivarcele da noi».
Il futuro del restauro potrebbe insomma tendere al verde. Di certo non sarà roseo. La spending review ovviamente ha colpito duro anche qui. «C’era la Mac che aveva prodotto un’ottima malta, la Albaria, apposta per questo settore. Ma poi l’ha dismessa perché poco remunerativa. Così rimaniamo relegati in una nicchia», si sfoga Gisella Capponi, direttrice dell’Iscr che in quattro anni ha visto ridurre i fondi statali da un milione a 470mila euro annui, con sessanta allievi da finire di formare. «Io spero che ce la faremo a inaugurare il nuovo corso. Ci diamo da fare per trovare i soldi fuori, e ci riusciamo. Ma non bastano più». Nel glorioso istituto fondato nel 1939 da Argan, dipartimento di fisica, ci si occupa anche di sensoristica. Elisabetta Giani, fisica, con Chiara Petrioli, informatica della Sapienza, sta sperimentando sistemi elettronici adatti a rilevare «gli shock, termici e meccanici, subiti dalle opere durante i trasporti». Anche perché, come succede in questi giorni per il viaggio delle sculture di Augusto dalle Scuderie del Quirinale a Parigi, «un imballaggio più sicuro abbatterà gli esorbitanti costi di assicurazione».
Ma anche nell’arte contemporanea c’è molto campo per la ricerca. «Fino al Settecento si usavano una ventina di pigmenti in tutto, poi la chimica ha cambiato il mondo e dal Novecento gli artisti non fanno che sperimentare nuove tecniche, le più anticonvenzionali: per noi è una sfida continua» dice Marco Ciatti. Il primo istituto ad aver aperto al contemporaneo è stato, negli anni Novanta, l’Iscr. Il laboratorio è guidato da Paola Iazurlo e Grazia De Cesare. Ora hanno per le mani la Cosmogonia di Giulio Turcato. Il pittore aveva provato a riparare gli scollamenti avvenuti sulla pelle dell’asfalto da lui steso nel 1960. Ma il problema si è ripresentato. «Abbiamo analizzato e riprodotto il bitume in laboratorio per studiarlo nel dettaglio — spiega Iazurlo — quindi siamo intervenute scaldando le creste prima di farle riaderire alla tela con una colla ad hoc». Ora il Turcato restaurato a Roma fa giurisprudenza.
Il futuro del restauro può però voler dire anche ritorno al passato. Se lo augura Giovanna Martellotti, della Cbc, cooperativa nata nel 1977: «Assistiamo a un declino progressivo della manualità. I corsi aperti da accademie e università privilegiano l’aspetto teorico. Eppure il restauratore deve allo stesso tempo sapere e saper fare». Un futuro che può voler dire in un certo modo la “fine” del restauro è quello proposto da Bruno Zanardi dell’Università di Urbino. «A furia di intervenire, ci stiamo giocando l’arte italiana. Dopo la prima, ogni successiva pulitura di un Caravaggio è un crimine perché sempre qualcosa si perde» è il suo
j’accuse.
Questo non significa però fermare la ricerca. Affidata al digitale. E al virtuale. Zanardi ha condiviso la tesi di un suo allievo, Luciano Ricciardi. Due tempere del Trecento della Galleria nazionale dell’Umbria sono state passate ai raggi infrarossi per rilevare il disegno sottostante e alla luce ultravioletta per stanare le ridipinture. Armato di Autocad e di Photoshop, ha ricostruito esattamente le parti mancanti dell’Annunciazione e rimosso, dalle spalle della Vergine col Bambino, il tendaggio posticcio così da far risplendere l’originario fondo oro. Tutto però solo sull’immagine elettronica. «I Federico Zeri di domani potranno fare attribuire le opere collegandosi semplicemente a un pc. Evitando così di danneggiarle» gongola Zanardi.