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 2014  aprile 09 Mercoledì calendario

SI CHIAMAVA VIVIAN MAIER


Si chiamava Vivian Maier, e se il nome non vi dice niente, la cosa è abbastanza normale. Nella vita faceva la tata, lo stesso mestiere di sua madre e di sua nonna: lo faceva per le famiglie upper class di Chicago, e lo faceva bene, con limitato entusiasmo, pare, ma con inflessibile diligenza. Lo fece per decenni, a partire dai primi anni Cinquanta: i suoi bambini di allora adesso sono adulti che, piuttosto increduli, si vedono arrivare giornalisti o ricercatori che vogliono sapere tutto di lei. Un po’ spaesati, annotano che non è il caso di immaginarsi Mary Poppins: era un tipo maniacalmente riservato, un po’ misterioso, piuttosto segreto. Faceva il suo dovere, e nei giorni di vacanza, spariva. Non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse amici, era solitaria e indipendente. Non scriveva diari e che io sappia non ha lasciato dietro di sé una sola frase degna di memoria. Le piaceva viaggiare, naturalmente sola: una volta si fece il giro del mondo, così, perché le andava di farlo: è anche difficile capire con che soldi. Una cosa che tutti ricordano di lei è che accatastava oggetti, fogli, giornali, e la sua stanza era una specie di granaio della memoria, immaginato per chissà quali inverni dell’oblio. Collezionava mondo, si direbbe. L’altra cosa che tutti ammettono è che sì, in effetti, girava sempre con una macchina fotografica, le piaceva scattare foto, era quasi una mania: ma certo, da lì a immaginare quel che sarebbe successo… Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier si è ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si è fatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava molto, come si è visto, affittò un box, in uno di quei posti in cui si mettono i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che non sai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finì i soldi, non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire.
Quelli dei box, se non paghi, dopo un po’ mettono tutto all’asta. Non stanno nemmeno a guardare cosa c’è dentro: aprono la porta, gli acquirenti arrivano, danno un’occhiata da fuori e, se qualcosa li ispira, si portano via tutto per un pugno di dollari: immagino che sia una forma sofisticata di gioco d’azzardo. L’uomo che si portò via il box di tata Maier si chiamava John Maloof. Era il 2007. Più che altro si portò via scatoloni, ma quando iniziò a guardarci dentro scoprì qualcosa che poi avrebbe cambiato la sua vita, e, immagino, ingrassato il suo conto in banca: un misurato numero di foto stampate in piccolo formato, una marea di negativi e una montagna di rullini mai sviluppati. Sommando si arrivava
a più di centomila fotografie: tata Maier, in tutta la sua vita, ne aveva visto forse un dieci per cento (pare non avesse i soldi per lo sviluppo, o forse non le importava neanche tanto), e non ne pubblicò nemmeno una. Ma Maloof invece si mise a guardarle per bene, a svilupparle, a stamparle: e un giorno si disse che o era pazzo o quella era una dei più grandi fotografi del Novecento. Optò per la seconda ipotesi. Volendo credergli, si mise anche a cercarla, questa misteriosa Vivian Maier, di cui non sapeva nulla: la trovò, un giorno del 2009, negli annunci mortuari di un giornale di Chicago. Tata Maier se n’era andata in silenzio, probabilmente in solitudine e senza stupore, all’età di 83 anni: senza sapere di essere, in effetti, com’è ormai chiaro, uno dei più grandi fotografi del Novecento.
La prima volta che ho incrociato questa storia ho naturalmente pensato che fosse troppo bella per essere vera. Tuttavia le foto erano davvero pazzesche, tutte foto di strada, quasi tutte in bianco e nero: pazzesche. Così ho setacciato un po’ il web scoprendo che in effetti il mito della Maier era già lievitato niente male, sebbene all’insaputa mia e dei più: mostre, libri, perfino due film, uno prodotto dalla Bbc: insomma, se era un falso, era un falso fatto maledettamente bene. Quindi una certa curiosità continuava a ronzarmi dentro finché ho scoperto che a Tours, amabile cittadina della provincia francese, neanche poi tanto lontana, c’era una mostra dedicata a tata Maier. Non so, ho pensato che volevo andare a vedere da vicino, a toccare con mano, a scoprire qualcosa. Insomma, alla fine ci sono andato. Dopotutto, Tours è anche il posto in cui è nato Balzac, un pellegrinaggio letterario non ce lo si nega mai, potendo. (Balzac, lo dico per inciso, è una lettura molto particolare. Quel che ho capito io è che per apprezzarlo veramente bisogna leggerlo in alcuni, circoscritti, momenti della vita: quelli in cui si vive con un filo di gas. Non saprei definirli in altro modo, quindi fatevi bastare questa definizione. Ma è certo che se uno è felice, Balzac è palloso, se uno sta male davvero, Balzac è inutile. Quando state lì, sospesi tra una cosa e l’altra, leggerlo è una delizia. Ah, un’altra cosa su Balzac, se posso approfittare della parentesi: io sono convinto che quando parliamo di letteratura intendiamo una cosa che è nata nel passaggio da Balzac a Flaubert ed è morta nell’ultima pagina della Recherche: il resto è un lunghissimo, geniale e grandioso epilogo, in certo senso perfino più interessante. Fine della digressione).
Tours era una città mirabile, una volta: per i francesi era la capitale di riserva, quella che stava in panchina e entrava in campo quando Parigi dava forfait. Adesso è rimasto poco, e questo perché degli allegri ragazzoni americani, nei loro bombardieri, l’hanno spianata cercando di centrare il ponte sulla Loira, e presumibilmente facendolo con una certa generosità di mezzi o deficienza di mira, non so. Alla fine è rimasto poco. Nel poco, una sfolgorante cattedrale, una di quelle che offrono il privilegio di pronunciare l’elegantissima frase Sono entrato nella cattedrale ad ammirare le vetrate (blu e rossi magnifici, un’emozione, se posso dire la mia). E poi un castello, almeno un pezzo del castello, proprio sulla riva del fiume: ed è lì che tenevano tata Maier. Ingresso gratuito, devo registrare. Francesi.
Insomma, sono salito al primo piano, e lei era lì. Foto che, quando andava bene, lei si era vista in un formato che stava nel portafogli, sfavillavano belle grandi sulla pareti bianche: formato quadrato, stampa impeccabile. Come ho detto, sono tutte foto rubate per strada: per lo più gente, ma anche simmetrie urbane, cortili, muri, angoli. Un cavallo morto su un marciapiede, le molle di un materasso abbandonato. Ogni volta, tutto perfetto: la luce, l’inquadratura, la profondità. E, sempre, una specie di equilibrio, di armonia, di esattezza finale. Come facesse, non si sa. Voglio dire, per azzeccare il ritratto di un passante e ottenere qualcosa di quella intensità, e forza, e impeccabile bellezza, bisognava avere un talento mostruoso. Lei l’aveva. Aveva dodici colpi, nella sua Rolleiflex, per ogni rullino. Dato che poi li teneva a marcire in un box, quei rullini, noi adesso possiamo vedere come sparava: mai due colpi sullo stesso bersaglio. Se ne concedeva uno, le era estranea l’idea che nella ripetizione si potesse migliorare. L’unico soggetto a cui abbia dedicato ripetuti ritratti, inaspettatamente, è se stessa: si fotografava riflessa nelle vetrine, negli specchi, nelle finestre. L’espressione è tragicamente identica, anche a distanza di anni: lineamenti duri, maschili, sguardo da soldato triste, una sola volta un sorriso, il resto è una piega al posto della bocca. Impenetrabile, anche a se stessa. Le piacevano le facce, i vecchi, la gente che dorme, le donne eleganti, le scale, i bambini, le ombre, i riflessi, le scarpe, le simmetrie, la gente di spalle, la rovina e gli istanti. Si vede lontano un miglio che adorava il mondo, a modo suo — ne adorava l’irripetibilità di ogni frammento. Probabilmente le andava di produrre quello che ogni fotografia ambisce a produrre: eternità. Ma non quella friabile delle foto dei mediocri: lei otteneva quella, incondizionata, dei classici.
Poi non so, magari mi sbaglio. Ma devo registrare il fatto che, nel caso, iniziamo ad essere molti, a sbagliarci. Quindi darei per buono che, in effetti, c’è un grande fotografo del Novecento in più. Naturalmente adoro l’idea che non abbia detto una sola frase sul suo lavoro, né abbia guadagnato un dollaro dalle sue foto, né abbia mai cercato una qualunque forma di riconoscimento. Ma la storia non è ancora finita, e magari, nel tempo, qualcosa verrà fuori, a incrinare tanta irreale purezza. Ma le foto resteranno, su questo è difficile avere dubbi. Tra l’altro, sfido chiunque a fissarle senza percepire, in un attimo di lucidità, la smisurata vigliaccheria del fotografare digitale: devo a tata Maier il mio definitivo disprezzo per Photoshop.
Le devo anche il fatto che poi sono uscito, tirava vento gelido, e pioveva orizzontale, a folate, mi sono rifugiato nella cattedrale di prima, giusto per non inzupparmi, e aspettando che passasse ho alzato gli occhi verso le vetrate, e nelle vetrate, spente dal cielo nero del temporale, le storie dei santi avevano quella bellezza uccisa che tante volte vedo negli umani, sempre cercando di trovarle un nome, senza trovarlo.