Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  aprile 08 Martedì calendario

SORRENTINO: I MIEI FILM NATI DALLA MALINCONIA


CERTI piccolissimi dettagli. Il piede di Mastroianni che dondola davanti al cardinale, in Otto e 1/2 di Fellini. Quello sguardo, proprio quello in quell’istante, di Robert DeNiro in Re per una notte di Scorsese. Un giro armonico di Wild horses dei Rolling Stones, «la canzone più malinconica che esista». Quel modo che aveva Antonio Capuano di dire le cose.
Gli occhi dei figli, Anna e Carlo, quando vengono a trovarti al lavoro e stai girando, hai da fare ma loro ti chiamano e ti chiedono ho fame sbrigati e non gliene importa niente di cosa stai facendo, non ti prendono mai sul serio. «Né mia moglie né i miei figli mi prendono sul serio, in effetti, ed è la cosa che preferisco ». Qui è quando Paolo Sorrentino sorride sincero per la prima volta, la testa inclinata, una pausa di sollievo. Dopo centinaia di foto, di pose, di voci che gridano qui, guarda qui. «La mia famiglia mi ha consentito di ritrovare un equilibrio perduto. Di allontanare la malattia della solitudine, che può essere una prigione».
È appena tornato da Los Angeles, primo giorno a Roma. Lo sguardo un po’ stanco, «perdonatemi ma sono ancora stordito ». Anche nella gioia della notte degli Oscar Paolo Sorrentino non ha mai perso quel velo di malinconia, quel leggerissimo fuori sincrono. Il microfono era troppo basso, sul palco del Kodak theatre, lui chino. «L’ho vista dopo, la scena del discorso, con gli amici. Una sola volta, intendo in una sola sera, diverse volte. No, non l’avevo preparato il discorso, non l’avevo fatto davanti allo specchio, no. Ma non perché sia scaramantico. Da quando Walter Siti ha detto che essere scaramantici porta sfortuna ho smesso di esserlo». Secondo sorriso.
Si parla molto della sua giovinezza, dietro le quinte della lunga intervista a Repubblica.it. Di quando era un ragazzo che studiava economia e commercio e tutto doveva ancora succedere, «non che non mi piacesse, c’erano alcune cose dell’economia che mi interessavano molto ma ad un certo punto ho capito che non era quella la mia strada. È stato quando ho visto Nuovo Cinema Paradiso che ho pensato: ecco, è questo che voglio fare e ora mi pare bello ripensare a quel film di Tornatore, un po’ un cerchio che si chiude ». No, non è stato difficile scegliere di lasciare l’università, cercare un varco nel cinema. «Perché in quegli anni, a Napoli, c’era come un solco tracciato da Antonio Capuano. Poi Mario Martone e Pappi Corsicato: era facile appassionarsi e starci dentro, sono stato fortunato». Capuano lo cita molte volte, il suo primo maestro, sembra quasi che abbia il rammarico di non averlo nominato dal palco «in effetti le fonti di ispirazione erano molte, ho detto solo Fellini i Talking Heads Scorsese e Maradona perché non c’era più tempo, e lì poi sei molto emozionato, ma avrei potuto citare tanti altri miei maestri, di cinema di teatro e di scrittura».
Perché se il cinema è arrivato tardi, nei suoi trent’anni, la scoperta della scrittura è stata la prima sorpresa. «Non ero un granché a scrivere, prima. Stavo in una vena grottesca che non era proprio la mia. Poi ho cercato un’ispirazione più vicina, non sono dovuto andare lontano, e ho trovato la malinconia». La sua malinconia, intende. «Per certe vicende della vita sono rimasto solo». I genitori scomparsi in un incidente drammatico, gli anni difficilissimi della prima giovinezza, la solitudine. La consolazione della musica, «i Talking Heads che ho scoperto per primi e che mi hanno dato tanto sollievo, o almeno mi pareva che me lo dessero». Maradona quella notte sul campo da tennis, che si allenava di nascosto e metteva la palla sempre nello stesso incrocio dei pali, e io «a sedici anni a guardare questa scena al buio, come fosse un miracolo». I premi per le sceneggiature, il primo film. «Quando ho girato L’uomo in più avevo così tanta paura che sarebbe stato il primo e l’ultimo che ci ho messo dentro due storie, ci ho messo tutto».
L’incontro con Toni Servillo, da adulti. «Facciamo insieme un film sì e uno no. Il prossimo no», terzo sorriso. Poi l’amore, poi Roma, poi i figli, poi i nuovi film. Questo è davvero «il mio lavoro migliore, e non è vero che sia cinico: dietro il cinico disincantato si nasconde sempre un sentimentale deluso». Un sentimentale deluso. «Il mio protagonista, dunque io, ricomincia a scrivere, alla fine del film. Non c’è pessimismo, anzi. C’è uno
sguardo che vuole essere poetico e non ho avuto paura, no, del confronto con Fellini perché è un confronto impossibile. Però gli devo tanto, ho imparato da lui per esempio a raccontare la realtà senza documentarmi, immaginandola, le mie feste non sono feste che ho visto, ci sono andato una volta sola poi ho smesso perché temevo che mi deludessero. Volevo raccontare il niente, quei rapporti che abortiscono nel momento in cui nascono. Le volevo memorabili squallide e volgari. Come le ho viste senza vederle davvero. Anche in America, credo, anche a Los Angeles si sono riconosciuti in quel modo di stare al mondo». Adesso «sono un uomo felice, sì. Sono felice e molto fortunato. Vorrei che questo nuovo governo italiano si occupasse più di cultura, di bellezza. Il nostro cinema vive una grande stagione. Il Capitale umano di Virzì, ad esempio, è un film bellissimo. Vorrei che si capisse che questo è il modo per uscire dalle sabbie mobili del disincanto, che anche noi ci vedessimo con gli occhi con cui ci vedono altrove, che ne fossimo capaci». Dall’America il più bel ricordo che porto «è quello di una signora anziana che mi ha tenuto la mano e pianto per venti minuti durante la proiezione del film. Mi parlava, ma no non lo so perché piangeva, non capisco bene l’inglese. Però piangeva tanto, e alla fine mi sono un po’ commosso anche io».