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 2014  aprile 08 Martedì calendario

“COSÌ NAPOLITANO AFFOSSÒ LA LEGGE ELETTORALE RENZI-B.”


A Napolitano la prima versione dell’accordo tra Renzi e Berlusconi, sostanzialmente il modello spagnolo, fortemente bipartitico, non piaceva. A raccontarlo, seppur con i termini e l’occhio del politologo, è Roberto D’Alimonte. Ovvero il costituzionalista che ha lavorato con Renzi e per Renzi alla legge elettorale. Che ieri in un convegno all’Istituto Sturzo di Roma ha ricostruito tutte le fasi iniziali della riforma ora al voto della Camera. Facendo emergere due punti fondamentali: il ruolo del presidente della Repubblica e la mediazione continua di Renzi con Denis Verdini, emissario di Silvio Berlusconi. Che come accade anche in questi giorni è quello al quale il segretario dem affida l’ultima parola prima di qualsiasi modifica.

FINO alla chiusura dell’accordo del Nazareno con il Caimano, Renzi si era totalmente affidato ai servizi del Professore, che aveva cercato di congegnare un meccanismo che rispettasse i requisiti della Corte costituzionale, rispondendo però alle esigenze tecnico-politiche di Renzi in primis e di Berlusconi, poi. Quando si è arrivati alla Camera le cose sono cambiate. Lo stesso D’Alimonte non aveva previsto l’algoritmo (ovvero il sistema della ripartizione dei seggi) e su quello hanno poi lavorato gli uffici studi della Camera. Ma soprattutto per l’esigenza di mediare con i piccoli il testo concordato da Matteo e Silvio, il modello iniziale è stato totalmente stravolto. Senza che Renzi abbia più sentito la necessità o l’esigenza di parlare con quello che doveva essere il padre, e che ora si definisce lo “zio”, della riforma. E che da qualche giorno prende le distanze, con interviste e articoli. Pur ammettendo la necessità del “compromesso” in politica, e definendola comunque “una buona legge con qualche difetto” ha usato parole critiche sulla scelta di dare validità all’Italicum solo per la Camera, con due sistemi opposti nei due rami del Parlamento.

In un primo momento, dunque a gennaio il segretario del Pd e il leader di FI avevano trovato un’intesa su un modello spagnolo: proporzionale con elevata capacità selettiva e con effetti potenzialmente bipartitici grazie a collegi plurinominali molto ridotti, al riparto dei seggi su base territoriale con assenza di recupero nazionale dei voti, a soglie di sbarramento implicite assai elevate. E l’aggiunta di un premio di governabilità. Ma Napolitano, spiega D’Alimonte, era preoccupato che il sistema elettorale non riproponesse alcuni meccanismi già censurati dalla Corte, “troppo maggioritari e distorsivi della rappresentanza”. In particolare, al Presidente la soglia per far scattare il premio di maggioranza sembrava troppo bassa e l’entità del premio troppo grande. Non solo. L’intesa provocò una reazione negativa da parte dei piccoli penalizzati, di Letta timoroso delle ripercussioni negative sulla tenuta del proprio esecutivo per le critiche e defezioni di Ncd, Sc e Per l’Italia. Così si giunse all’elaborazione di un modello ben diverso, con il premio che scattava in un primo momento al 33% dei suffragi e poi al 37%. Fu poi nel corso dell’incontro al Nazareno del 18 gennaio che Renzi chiese al Cavaliere l’introduzione del ballottaggio, non ottenendo risposta poiché, come racconta D’Alimonte, il tema doveva essere esaminato accuratamente da Denis Verdini. E per questo motivo l’attuale premier non ne fece cenno nella conferenza stampa quella sera. Solo il 20 gennaio, con l’ok di Verdini, la riserva fu sciolta con l’accettazione del doppio turno da parte del fondatore di Fi in cambio di una soglia relativamente bassa di suffragi per evitarlo. Un via libera concesso da Berlusconi nella convinzione di poter vincere al primo turno.