Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 8/4/2014, 8 aprile 2014
UN EURO TROPPO FORTE E UN’ECONOMIA TROPPO DEBOLE
La si potrebbe definire una politica da esorcisti. Spaventati dalla prospettiva delle elezioni europee di maggio e dal voto di protesta di chi patisce la crisi, da alcuni mesi dai governi dell’area euro si sente recitare senza sosta il rosario della speranza, secondo cui in Europa le cose vanno meglio dappertutto, dalla Grecia alla Finlandia. Il paradosso è che i mercati ci hanno creduto e che l’euro ora è esageratamente forte. Così i Paesi della periferia, Italia inclusa, che devono aggiustare l’economia con una penosa «svalutazione interna» - bassi prezzi e salari in discesa – ,vedono i loro patimenti vanificati dalla più classica «rivalutazione esterna»: una moneta che è vicina a 1,40 sul dollaro, cioè ai massimi dal 2011, che erode competitività. Può essere vero che le cose stiano migliorando, ma come sempre dal 2008 in poi, sembra che non sappiano farlo se non nel peggiore dei modi possibili.
I capitali che arrivano nell’area euro dai Paesi emergenti hanno rafforzato l’euro e abbassato un po’ gli spread, ma non hanno modificato il problema principale: la divaricazione tra le economie della zona. Eppure a Berlino e a Parigi si sente solo ripetere che la crisi è finita, che perfino la Grecia rinasce e che questa volta sì, merita di essere aiutata a crescere. In Spagna si celebra un orgoglio da flamenco: di chi con due riforme ha fatto tre passi indietro dall’abisso. Giovedì perfino Mario Draghi ha definito l’area euro un’isola di stabilità, ma in fondo stava facendo un paragone con l’Ucraina e ha poi riconosciuto che si tratta di una stabilità opinabile visto che sull’isola ci sono poco lavoro e prosperità.
È probabile che si tratti di un’artificiale bonaccia politica. E che a giugno, passata la paura di Tsipras e di Lucke, di Le Pen e soci, salti fuori che la frattura che si è aperta tra Nord e Sud non si chiuderà da sola se non tra molti anni; che il fiscal compact così non funziona; che da Atene a Dublino, passando per mare, non ci sono Paesi con finanze pubbliche e private solide; che se la capacità produttiva resta inutilizzata, come ha detto la Bce ieri, allora ci può essere anche un problema di domanda.
Che cioè bisogna ritrovare un’iniziativa politica prima che a renderla inevitabile siano nuove crisi. Se in Germania e Francia i produttori compensano l’euro forte con tassi d’interesse reali quasi negativi, questo non avviene altrove. I Paesi in difficoltà infatti restano zavorrati da costi del credito che sono più alti della media. C’è un effetto causato dal maggior rischio del loro debito pubblico, i cui titoli hanno un ruolo centrale nei sistemi bancari, e si trasmette in tal modo alle imprese. E c’è un effetto ormai radicato di segmentazione del credito e di rottura del meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Ciò che resta è la persistente divaricazione nei tassi di crescita delle economie europee.
Le conseguenze sono però anche di natura politica perché si indebolisce la strategia di soluzione della crisi. Un apprezzamento del 9% dell’euro dal 2012 a oggi, infatti, ha tolto quasi mezzo punto all’inflazione e ciò rende ancora più difficili le riforme strutturali e il loro buon esito, cioè uno spostamento non deflazionistico dell’attività economica dai settori chiusi a quelli esportatori. Quando l’inflazione si avvicina a zero, l’aggiustamento dei prezzi relativi diventa più difficile e spesso avviene solo attraverso disoccupazione o minore crescita.
Il tasso di cambio non è un obiettivo di policy della Banca centrale europea ed è giusto così, ma la disponibilità di credito in tutta l’euro area lo è. Ci sarebbero vari strumenti di politica monetaria che potrebbero essere utilizzati anche subito. Ma senza sostegno politico esplicito è difficile per la Bce sconvolgere la bonaccia. Tanto più in un periodo pre-elettorale.
Per ora si punta soprattutto a varare l’unione bancaria, cioè a uniformare vigilanza e metodi di soluzione delle crisi bancarie in modo da restituire fiducia nella solidità delle banche. L’affidabilità delle banche non dipenderebbe più dal Paese in cui hanno sede ed esse potrebbero finanziarsi – e finanziare - a costi molto simili. È una scommessa affascinante e il lavoro preparatorio fatto a Francoforte è eccezionale. Ma anche in questo caso l’impegno dei governi è stato debole, incline ai rinvii e agli annacquamenti. Nel complesso non rassicurante. Quello che è probabile è che fino a giugno tutt’al più sentiremo ancora ininterrotta la litania dell’ottimismo per nascondere prima di tutto la paura degli esorcisti.