Carlo Ripa di Meana, il Fatto Quotidiano 8/3/3014, 10 marzo 2014
PRATO MACROLOTTO, DOVE I CINESI RESTANO SCHIAVI
Mercoledì 18 febbraio sono partito da Roma in macchina, con mia moglie Marina, il nostro figlio adottivo Andrea e un’amica, Tilde Riva. Era una bella mattina soleggiata, ma quando siamo arrivati a Prato, il cielo era coperto e minaccioso. Faceva piuttosto freddo. Non abbiamo nemmeno dovuto ricorrere al Tom-Tom, il navigatore per le auto, per arrivare al Macrolotto, tali e tanti sono i cartelli stradali che lo indicano con chiarezza. Siamo passati davanti al Centro d’arte contemporanea Luigi Pecci, dove sono stato altre volte, in altre circostanze. Abbiamo percorso via Paronese, via dei Fabbri, via del Molinuzzo e infine via Toscana.
Per le strade, non c’era quasi nessuno: in questa zona non abbiamo visto mezzi pubblici durante le tre ore di ricognizione. Se qualcuno si immagina di trovare strade brulicanti di cinesi indaffarati, resterà deluso: vie silenziose, pochi passanti, ombre furtive (cinesi, ovviamente, ne ho contati quattro o cinque, sguardo in basso), una serie infinita di capannoni e miriadi di doppie insegne in italiano e in cinese. La parola chiave, è “pronto-moda”.
Ai cancelli di molti capannoni erano ancora appesi drappi e nastri rossi, strappati e sgualciti. Più tardi mi hanno spiegato che tre giorni prima, il 15 febbraio, si era festeggiato il Capodanno cinese e che festoni e tappeti rossi servivano per invitare il Dragone a entrare e portare un po’ di fortuna. È l’anno del Cavallo, e pare che in Cina questo sia di buon auspicio. Arriviamo in via Toscana. Cerchiamo il numero 63/65, dove è avvenuto l’incendio il primo dicembre dello scorso anno. Marina e Andrea scendono dall’auto e si infilano nell’atrio di un capannone, al numero 56. Marina cerca di parlare con una ragazza che le è andata incontro, le chiede se ricorda qualcosa dell’incendio, mentre Andrea scatta qualche foto. Vengono invitati ad andarsene in modo piuttosto perentorio.
Al numero 63/65, il corteo dei festeggiamenti per il capodanno cinese non deve essere passato, forse per rispetto dei morti. Qui niente nastri rossi, è tutto tranquillo. Sparita la confusione di ambulanze della Misericordia, di autopompe dei Vigili del Fuoco, di auto della Polizia, di gente che si aggirava smarrita e piangente. Ora regna il silenzio. Noto che l’insegna di Teresa moda è stata staccata. Il vetro spesso di una finestrella, chiusa da un’inferriata, è rotto, mi chiedo se era da lì che sporgeva la mano del pover’uomo, che poi è morto carbonizzato. Il portone accanto, con l’insegna Ye-Life, è aperto. Entro nello stanzone del pianoterra, dove ci sono i campionari allineati sugli stand con le stampelle: mi sembra siano camicette, tutte di colore blu elettrico. Le pareti sono bianche; sul lato destro, una scaletta in muratura porta non so dove, forse ai soppalchi rifugio e dormitori o al laboratorio. Anche Marina, Andrea e Tilde scendono dall’auto e mi raggiungono. Una ragazza cinese, vestita di nero, in pantaloni e giacca di pelle, ci viene incontro con aria poco cordiale. Sapevo che all’interno ci sono videocamere a circuito chiuso, perciò la nostra presenza non era certo una sorpresa. La ragazza dice che non parla italiano e ci fa capire che ce ne dobbiamo andare. Getta un’occhiata di disapprovazione alla nostra auto parcheggiata davanti al cancello, nell’area del suo capannone. La raggiunge un ragazzo, vestito come lei. I nostri tentativi di dialogo naufragano miseramente. Penso che forse dovremmo cercare di passare dal retro, dove probabilmente si accede ai laboratori, ma capisco che sarebbe inutile.
Riprendiamo l’auto. L’unico segno di vita, mentre facciamo qualche giro per le vie del Macrolotto, è un omino cinese con un paio di cassette di gamberoni (o forse canocchie), che muovono ancora le chele. Ci allontaniamo in direzione del centro di Prato. Passiamo per Chinatown, via Fabio Filzi, via Pistoiese (con il famoso coloratissimo tazebao), piazza del Mercato Nuovo (dove c’è il tempio buddista).
Decido di dare un’occhiata anche alla libreria di via Cavour numero 13115, dalla quale sono stati spediti 356 milioni di euro in Cina attraverso Money2Money, con micro trasferimenti di 1.999 euro ciascuno: così dicono le indagini condotte da Pietro Suchan. Naturalmente la libreria Ou Hau non c’è più, è rimasta solo l’agenzia di viaggi cui era abbinata. Entro nell’agenzia e dico che sono un appassionato di libri antichi (tra l’altro, è vero) e che mi aveva incuriosito l’idea di una libreria cinese (anche questo è vero). Due ragazze cinesi spigliate e gentili (che parlano italiano) mi spiegano che hanno dovuto chiudere la libreria perché “non rendeva più” per via della crisi. Ci salutiamo con una serie di “mi dispiace” e risalgo in macchina. Quando sto per ripartire, sento battere a un finestrino. Abbasso il vetro. La più giovane delle due ragazze dell’agenzia mi porge un libro con un sorriso: «Guardi – mi dice – le vogliamo regalare questo libro, visto che lei si interessa ai disegni cinesi...». È un gesto molto gentile: è un libro scritto in cinese, con molti disegni e ideogrammi. Non un libro costoso, ma comunque interessante, anche se per me incomprensibile. Ringrazio con sincero calore.
Chissà, forse oggi abbiamo fatto un passo avanti nei rapporti tra italiani e cinesi, a Prato. Forse oggi sarebbe contento di me Romano Prodi, grande esperto del mondo cinese, che il 4 dicembre 2013, tre giorni dopo il rogo dei sette cinesi schiavi, sul Messaggero ha pubblicato un articolo intitolato: «Dialogare con i cinesi, a Prato e in tutta Italia: cooperazione reciproca ma nel pieno rispetto delle leggi». Anche lui azzarda qualche cifra sul numero degli immigrati: 32 mila regolari, più 15 mila clandestini. Sono i 50 mila di cui parla anche il sindaco Cenni. Prodi, tre giorni dopo il rogo di Prato, descrive bene Wenzhou, da cui arriva il 90% dei cinesi di Prato. Il professore è molto apprezzato in Cina, tant’è vero che è stato invitato dal Partito comunista cinese a tenere dei corsi alla scuola di Partito e ha un contratto con l’agenzia cinese di rating, Da-gong. In Cina lo chiamano il Kissinger europeo.
Proprio lui, il Kissinger europeo, due settimane prima del rogo, esattamente il 18 novembre 2013, riferendo del terzo plenum del Partito comunista cinese che si era svolto in quei giorni a Pechino, raccontava di «un promettente processo di liberalizzazione del sistema bancario, di una progressiva abrogazione della regola del figlio unico e di una limitazione dell’applicazione della pena di morte». Io non penso che il «dialogo» tra italiani e cinesi basti a risolvere il problema. Anche Edoardo Nesi, che ha scritto su Repubblica un accorato articolo all’indomani del rogo, parla della necessità di «dialogo». E così pure Adriano Sofri, sempre su Repubblica, nell’articolo intitolato «Quel tappeto di bottoni nella chinatown toscana».
L’integrazione non si fa solo con i discorsi. Prima di tutto facendo la nostra parte, italiana. Oggi in Cina non ci sono più cortei di uomini e donne che agitano il Libretto rosso di Mao, oggi non ci sono più fucilazioni di massa e il Partito Comunista sta cercando la via delle riforme economiche. Oggi si vuole seguire l’invito di Deng Xiaoping: «Cinesi arricchitevi!». Oggi la tennista Li Na viene riverita e acclamata in patria, anche se vuole gestire la propria carriera fuori dal «sistema sportivo nazionale», forte dei 21 milioni di follower cinesi sul suo account twitter. Tutto questo avviene in modo molto violento, con grandi tensioni sociali, complessità e contraddizioni. Lo stesso Romano Prodi, descrivendo la città di Wenzhou (8 milioni di abitanti), dice che esiste un’enorme disparità tra gli splendidi grattacieli dei ricchi e gli slum di poveri, che frugano tra le immondizie. «Un’isola di imprenditorialità esasperata, con una struttura sociale dominata da piccolissime imprese, con un elevatissimo grado di irregolarità, ma anche con una conoscenza unica del mondo, interpretato come un luogo in cui tutto si può comperare e vendere. Una città nella quale l’emigrazione verso l’Europa, e soprattutto verso l’Italia, è ritenuta un elemento fondamentale della vita della comunità».
Forse bisognerebbe che Italia e Cina decidessero insieme un sistema di accordi ad alto livello, per impedire che i cinesi vengano da clandestini in Italia, a fare una vita da schiavi, magari preferibile a quella da schiavi in patria. Ma soprattutto penso che lo Stato italiano dovrebbe mettere in atto le misure annunciate per eliminare la sacca di illegalità e, prima di tutto, la riduzione in schiavitù di migliaia di esseri umani nel cuore della Toscana, ombre frettolose che scivolano lungo le mura del Macrolotto. Verso le tre del pomeriggio decidiamo di ripartire per Roma, sotto un violento acquazzone. In macchina, siamo tutti silenziosi. Ho la netta sensazione che nessuna delle autorità pratesi sappia qualcosa di sicuro: in realtà gli immigrati cinesi, clandestini e non, sono quasi invisibili, sono ombre, che ombre vogliono restare. Purtroppo, credo che tutto sia rimasto esattamente com’era prima dell’incendio del dicembre 2013.