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 2014  marzo 09 Domenica calendario

Negli anni di Gorbaciov venne rotto nell’Urss, per la prima volta, il silenzio sulla morte per fame di milioni di contadini nel 1932-1933

Negli anni di Gorbaciov venne rotto nell’Urss, per la prima volta, il silenzio sulla morte per fame di milioni di contadini nel 1932-1933. L’ansia di verità sorse dal basso, prese cioè l’avvio dalle lettere inviate ai giornali dai testimoni di quegli eventi. Da allora gli storici, russi e ucraini, non hanno smesso d’indagare sul crimine più aberrante e spaventoso del regime staliniano. Grazie al loro congiunto sforzo di ricerca, noi oggi conosciamo infiniti dettagli sulla tragedia che si abbatté sulle campagne dell’Urss, provocando milioni di vittime. Quando la verità emerse in tutta la sua crudezza, ebbero inizio anche i primi dissapori tra i protagonisti delle due storiografie. Ricorrendo al termine holodomor (sterminio per fame), gli studiosi ucraini individuarono nella grande fame un autentico genocidio contro la loro nazione: fu perfino usata l’espressione «olocausto ucraino». Per i russi, invece, si trattò di una spietata guerra condotta dallo Stato bolscevico contro una parte consistente del mondo contadino in tutta l’Urss. Che di stenti e d’inedia siano allora periti gli appartenenti a molti popoli dell’impero comunista di Stalin, è verissimo. In termini relativi, l’ecatombe umana più raccapricciante si ebbe nelle steppe del Kazakistan, dove perse la vita oltre un terzo dei nomadi. In Ucraina morirono circa tre milioni e mezzo (sembra questa la cifra più attendibile) di laboriosi agricoltori. Se a ciò si aggiunge la lotta senza quartiere all’intellighenzia e a una parte dei quadri comunisti locali, risulta chiara la volontà di distruggere le basi materiali e culturali della nazione ucraina. Si capisce dunque perché quella tragedia venga interpretata come un genocidio; e, a questo riguardo, forse non ha molto senso disquisire se si sia trattato di genocidio sociale o nazionale. Anche chi non ha dimestichezza con il russo e l’ucraino, può farsi un’icastica idea dello spaventevole holodomor leggendo le raggelanti e veridiche relazioni, inviate allora dai diplomatici italiani a Mussolini (e pubblicate da Andrea Graziosi in Lettere da Kharkov , Einaudi). La memoria delle inenarrabili sofferenze e delle distruzioni materiali, subite per colpa della politica di Stalin, è essenziale agli ucraini per tener viva la consapevolezza che mai più essi dovranno sottostare al giogo comunista e straniero. Ma se il holodomor è ormai assurto a tragico simbolo dell’identità nazionale di quel popolo, ben più antiche e profonde sono le radici e le ragioni dell’indipendenza dell’Ucraina. È diffusa la credenza che la Russia di Kiev (fiorita nei secoli X-XIII) sia stata la culla della civiltà russa. Gli storici ucraini, invece, la considerano il primo nucleo della propria cultura. In realtà, quella splendida civiltà degli slavi orientali ‒ legata agli altri Stati cristiani dell’Europa medievale fu un momento storico a sé stante, conclusosi per una complessa serie di ragioni (tra le quali la principale è la traumatica invasione mongola). Dopo il tramonto della civiltà di Kiev, l’Ucraina e la Russia conobbero destini assai diversi. Fu il principe lituano Algirdas a conquistare Kiev nel 1362, liberandola dalla dominazione mongola. L’Ucraina entrò quindi a far parte del Granducato di Lituania (uno degli Stati più vasti dell’epoca, esteso dal Baltico al Mar Nero), la cui forza stava nella saggia politica interna oltre che nel valore guerriero dei suoi principi. Con l’Unione di Lublino (1569), che sancì la nascita dello Stato polacco-lituano, la maggior parte delle province ucraine passò sotto il dominio diretto del re di Polonia. Se per i contadini ciò significò la dura soggezione alla nobiltà polacca, sul piano culturale le conseguenze furono positive: i dotti ucraini entrarono a contatto con la civiltà occidentale e poterono usufruire del clima di relativa tolleranza che si respirava nella Polonia del Cinquecento. A Raków (l’«Atene sarmatica»), celebre per le sue fiorenti tipografie, trovò rifugio anche l’eretico italiano Fausto Socini. Le cose peggiorarono nel corso nel Seicento, per colpa dell’avanzata dell’integralismo cattolico in Polonia e dell’inasprimento del dominio signorile sui contadini. Così, i cosacchi ucraini volsero lo sguardo verso Mosca e decisero, con il trattato di Perejaslav del 1654, d’unirsi al limitrofo Stato ortodosso. Per la Russia, l’incorporazione delle nuove terre rappresentò un enorme vantaggio sul piano economico e strategico, nonché culturale: grazie all’Ucraina polonizzata, infatti, penetrarono nella Moscovia i primi germi della civiltà occidentale. A partire dal Settecento, gli ucraini persero ogni forma di autonomia: per loro la dominazione moscovita si fece via via più soffocante, tesa com’era alla russificazione del Paese. Falliti, nel 1917-1920, i tentativi di creare uno Stato indipendente, gli ucraini rimasero legati per un settantennio alla Russia sovietica. Oggi che hanno conquistato l’indipendenza, non vogliono che sia effimera o fittizia.