Giorgio Battistini, Corriere della Sera 9/3/2014, 9 marzo 2014
Maggiore Khvatov, dove sei? Qualcuno poi sarebbe andato a cercarlo, il suo Priebke sovietico, il suo carnefice stalinista
Maggiore Khvatov, dove sei? Qualcuno poi sarebbe andato a cercarlo, il suo Priebke sovietico, il suo carnefice stalinista. Bartolomeo Evangelista non l’ha mai dimenticato: gli furono date solo due ore per fare fagotto, otto chili e non di più. «Il 29 gennaio 1942, quel Khvatov era diventato il capo della polizia segreta comunista, l’Nkvd. Mi convocò. Era seduto alla fine d’un lungo tavolo, al secondo piano dell’edificio verde d’Uliza Lenina. Mi disse: “Bartolomeo, io ricordo tuo padre dai tempi in cui correvamo senza pantaloni. Adesso andrai in un sobborgo di Kerc, dove sono riuniti tutti gli italiani. Vi manderanno a Est. Sappi: occhio per occhio, dente per dente…”. Tre “falchi” mi portarono a casa su un camion. Ma a casa non c’erano più né mia moglie, né mio figlio…». Di Khvatov, oggi a Kerc nessuno parla più. Degl’italiani che il maggiore russo spedì nei gulag siberiani, nelle prigioni del Mar Glaciale Artico o ai lavori forzati del Kazakistan, nessuno si cura. Una lapide alla stazione ferroviaria commemora i tatari, gli armeni, i greci, perfino i tedeschi deportati da Stalin. Gl’italiani, no. Morti da niente. L’Olocausto con più omissis della nostra storia. Il genocidio ignoto d’una comunità che fu accusata d’avere sostenuto i fascisti, quando l’Armata Rossa arrivò a liberare la Crimea dai nazi, e che venne lasciata stare solo quand’ormai non c’era più nulla da fare («è stato un errore», riconobbe Mosca nel 1948), e che fu riabilitata dal Krusciov del XX Congresso (1956) quando da lucidare non c’erano nemmeno le tombe. Una volta il giurista Giulio Vagnoli provò a scriverne a Berlusconi e a Frattini, a Fassino e a Napolitano, esigendo almeno lo sforzo tardivo della memoria che s’è fatto per gl’istriani o i dalmati: ottenne solo un gran silenzio. Un’altra volta, anni ‘90, chiesero a Scalfaro in visita in Ucraina se volesse dire qualcosa di quella tragedia: il presidente guardò i microfoni, si guardò intorno smarrito. E tacque. Talianski, quanta gente. Erano quattromila, sono meno di 400. Nell’arcipelago dei popoli e dei martiri ucraini, gl’italiani di Crimea non hanno le cifre apocalittiche dei tatari musulmani, degli ebrei, dei kulaki. Ma il loro sterminio ha racconti spaventosi: persi per due mesi nelle stive dei piroscafi e su vagoni bestiame, 50 persone a vagone, morti di fame o scampati mangiando erba, baraccati senza coperte su bancali a trenta sottozero, schiavizzati per anni nell’industria pesante. Gli Evangelista erano 11: ne tornarono sei, e nessuno dei cinque bambini; i Simone erano sette: rimasero in due; i Demartino, cinque: sopravvissero in due… Un olocausto da museo: passati per la Crimea ai tempi di Marco Polo, era stata Caterina la Grande a chiamarne migliaia dalla Liguria e dalla Puglia, perché curassero il Borgogna dello Zar, insegnassero la navigazione, piantassero un pomodoro («l’italiano») che ancora oggi si trova sui mercati di Mosca… I loro guai cominciarono negli anni ‘30, quando il fratello di Pajetta e il cognato di Togliatti si rifugiarono qui: la chiesa fu trasformata in palestra, l’economia locale collettivizzata nel kolkoz «Sacco e Vanzetti». L’aria si fece rossa e pesante. E il Pci, già troppo impegnato a ignorare i comunisti «anomali» torturati alla Lubianka, non mosse un dito per salvarli dalle purghe. Russificati per scelta o necessità, oggi cinquecento discendenti sono rimasti nel Kazakistan: gli altri sono qui. Non vogliono la secessione dall’Ucraina, ma il referendum va loro bene: «L’unica strada per salvare la Crimea», dice la loro presidentessa, Giulia Giacchetti Boico, e per vedersi riconoscere almeno da Mosca l’indennizzo che spetta alle vittime del comunismo. Molti vivono da poveri, poche centinaia d’euro al mese. Alle loro famiglie era vietato parlare italiano e oggi, se sognassero di tornare in Italia, non saprebbero in che lingua. Chi ci prova, è per l’unico mestiere concesso a chi viene dall’Ucraina: la badante.