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 2014  marzo 08 Sabato calendario

NIENTE SESSO NE’ BIRRA. ECCO BUKOWSKI

Promessa. Qui non si parla delle sue sbor­nie. Neppure della par­te sporca di Hollywo­od o di quanto fosse stronzo con tutti quelli che non sopportava. Non si parla neppure di donne. Niente Hemingway e niente Cèli­ne. Nessun racconto sulle sue giornate da postino precario. Niente sesso. Nessun consiglio su come scrivere un romanzo che puzza di vero. Tanto certe co­se non si insegnano. Non c’è nep­pure la malattia, i gatti, le scom­messe, le ris­se, i colpi bassi sulle strade della beat ge­neration e nep­pure di quella volta che disse a Ginsberg: «Sei finito, do­po Howl non hai scritto più nulla di decen­te ». Tutto que­sto natural­mente Rober­to Alfatti Appe­titi lo raccon­ta. È nella bio­grafia Tutti di­cono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti, pagg. 300, euro 19). Quello che manca invece è la parte più insopportabi­le di Bukowski, cioè il poster. Bukowski è morto. È morto vent’anni fa e da allora è diventa­to uno stereotipo. Ogni tanto in­contri qualcuno che assomiglia a Bukoswki e ti vomita addosso. Poi non si scusa perché è alterna­tivo. Poi comincia a declamare, fingendo di biascicare, bestem­mie banali sullo schifo del mon­do. Poi ti dice che Hank è antia­mericano e la sua scrittura rivolu­zionaria. Poi occupa un teatro. E infine si fa pagare il conto perché è un’artista e per grazia divina e volontà della nazione va a scroc­co. A questo punto per fortuna ar­riva una vera reincarnazione di Bukowski e gli chiude la bocca.
Il Bukowski di Roberto Alfatti Appettiti si mette a fare il poster solo se ha molto bisogno di soldi, se non è ancora abbastanza ner­voso da mandare a quel paese i suoi lettori, se serve a rimorchia­re. Il resto è uno che sogna di fare lo scrittore e ci riesce dopo i cin­quanta. È disprezzo per accade­mici, colleghi, intellettuali e affi­ni. È individualismo e egocentri­smo. È quello che scrive. Sono le lettere che scrive a tutti quelli che gli scrivono. È menefreghi­smo verso le sorti del mondo. È rabbia verso i capatàz . È ammira­zione per chi ha coraggio. È uma­no troppo umano. E ci sono tre fi­gure che svelano la sua umanità.
Tre uomini. Uno è il dolore, il se­condo è l’occasione, il terzo è quello in cui sceglie di ricono­scersi.
Non si sceglie il padre. Ti tocca in sorte e se ti va male lo disprezzi e ti disprezzi. Bukowski padre era un ubriacone di Philadelfia rotto in culo che abitava in via del nulla. Un fallito, ma questo è il meno. Il peggio è che ti picchia tre volte a settimana fino a tirarti fuori le budella. La paura è asso­migliargli. Essere o non essere come lui. È quello che confessa nella poesia I gemelli . «Allargo le braccia come uno spaventapas­seri al vento, ma non serve a nien­te: non posso tenerlo in vita, non ha importanza quanto ci odiassi­mo. Sembravamo identici, avremmo potuto essere gemelli, il mio vecchio e io. Questo è quel­lo che dicevano... Va bene così. Concedeteci questo momento: in piedi di fronte a uno specchio, con addosso l’abito di mio padre morto, aspettando anch’io di morire».
Non si scelgono neppure i be­nefattori. Ti scelgono loro e ti cambiano la vita. Hank si arra­batta. Sogna di scrivere un ro­manzo, ma i racconti sono più ve­loci e lo fanno guadagnare. Ser­ve un mecenate. Lo trova. Ora co­me cavolo gli è venuto in testa a John Martin di puntare sul poeta ubriacone? Oltretutto Martin è astemio.Non fa neppure l’edito­re. È un lettore seriale, un mania­co collezionista di prime edizio­ni, ma per lavoro fa il direttore di una ditta di forniture per ufficio. Questo signore della middle class trova i fondi per una casa editrice, la Black Sparrow Press, e passa a Bukowski 100 dollari al mese. È abbastanza per lasciare il posto da postino e scrivere ro­manzi. Uno dice: Martin sarà un riccone che non sa dove spende­re i soldi? No, è solo uno che ha scommesso su un cavallo e ha vinto. È Bukoswski ad aver pau­ra, perché un conto è sentirsi un grande scrittore, altro dimostrar­lo. Ti dicono vai, non preoccu­parti, devi solo scrivere. A quel punto o ti ubriachi o batti sui ta­sti. Oppure tutte e due le cose. Non con tutti funziona.
Gli ultimi tempi andava così. Quasi tutti i giorni stava lì,in quel­l’ospedale, seduto accanto al suo letto. «Mi trovai davanti a un omino sotto le lenzuola. Non gli rimaneva molto delle gambe. Gli avevano lasciato braccia e mani. La faccia era portentosa, da piccolo bulldog». Che si dice­vano Chinaski e Bandini? Dico­no che fosse l’italoamericano a parlare. Il diabete segna i giorni che ti mancano alla fine. Chi­naski ascoltava. Trovi uno scrit­tore che riconosci come te stes­so. Lo scovi nei romanzi dimenti­cati in una biblioteca pubblica. Dici al mondo che esiste un ge­nio chiamato John Fante. Fai in modo che la tua fama lo renda immortale. Fai per la prima vol­ta qualcosa di davvero grande per un tuo simile. Lo scegli come maestro. E finalmente ti ritrovi in lui. Bukowski come Bandini. Un personaggio che ha trovato l’autore.