Sergio Romano, Corriere della Sera 8/3/2014, 8 marzo 2014
Grazie alle memorie della sua vita, pubblicate recentemente da Marsilio («Ogni cosa a suo tempo»), sappiamo quando Mikhail Gorbaciov cominciò ad avere qualche dubbio sul funzionamento dello Stato sovietico
Grazie alle memorie della sua vita, pubblicate recentemente da Marsilio («Ogni cosa a suo tempo»), sappiamo quando Mikhail Gorbaciov cominciò ad avere qualche dubbio sul funzionamento dello Stato sovietico. Non sappiamo invece se e quando Vladimir Vladimirovic Putin si sia accorto che l’Urss stava irrimediabilmente invecchiando e non avrebbe mai realizzato gli ambiziosi sogni di Lenin. Forse quando ascoltava le lezioni di Anatolij Sobchak, una delle migliori teste giuridiche del Paese, alla Facoltà di legge dell’Università di Leningrado? Oppure quando dirigeva l’ufficio del Kgb a Dresda e teneva d’occhio la Stasi con la stessa diligenza con cui i suoi colleghi tedeschi sorvegliavano i loro connazionali? Non sappiamo neppure se sia stato battezzato, come Gorbaciov, e se dietro i segni della ostentata devozione con cui partecipa alle cerimonie della Chiesa ortodossa vi siano almeno i rudimenti di una educazione religiosa. Sappiamo invece che ha tutte le qualità e i difetti di un nazionalista pan-russo. Non abbiamo dovuto attendere che definisse la disintegrazione dell’Urss come «la più grande catastrofe geopolitica del XX° secolo». Ci è bastato assistere allo stile con cui, appena giunto al potere, ha condotto la riconquista della Cecenia. La sua maggiore preoccupazione, sin dagli inizi, è stata quella di rendere alla Russia la sua storia. Era troppo realista per avere nostalgie sovietiche, ma troppo russo per tollerare che i settant’anni del regime comunista diventassero il buco nero della storia nazionale, il periodo da ripudiare o ignorare. Non era più possibile cantare l’inno nazionale con le parole dell’era sovietica, ma Putin cambiò le parole e salvò la musica, forse la più bella dopo quella di Haydn per l’inno imperiale austriaco. Sapeva che non sarebbe stato possibile celebrare la Rivoluzione d’Ottobre, ma andò alla ricerca di una data per quanto possibile vicina al 7 novembre, e la scelta cadde sul giorno (4 novembre) della grande insurrezione popolare del 1612 contro i polacchi e i lituani. Non importa che quella data segnasse anche l’inizio della dinastia dei Romanov: Michele, primo zar della Russia unificata, Pietro il Grande, vincitore degli svedesi, la Grande Caterina, vincitrice dei turchi e conquistatrice della Crimea, Alessandro I vincitore di Napoleone, Alessandro II, conquistatore del Caucaso e dell’Asia centrale, Lenin, fondatore dello Stato sovietico e Stalin, vincitore di Hitler, appartengono allo stesso dramma nazionale. È questa la storia che i manuali scolastici e i professori russi devono raccontare ai loro allievi. Come quasi tutti i suoi predecessori Putin non tollera il dissenso, diffida dei suoi vicini e vuole che lo Stato esibisca il suo potere con opere ambiziose e sfarzose. Non ha il gusto e la cultura dei grandi imperatori, da Pietro a Caterina, ma Sochi ha occupato nel suo orizzonte mentale uno spazio simile a quello di Pietroburgo nel sogno europeo del suo fondatore. Non era difficile immaginare che questo zar post-sovietico avrebbe cercato di ricreare il grande spazio russo dal Dnepr a Vladivostok, dal Baltico al Caucaso e al Mar Nero. Ha cercato di farlo dapprima usando il petrolio e il gas, grandi risorse naturali di un Paese non ancora sufficientemente industrializzato; poi con la creazione di un grande comunità euro-asiatica in cui dovrebbero trovare posto molti dei Paesi emersi dalla «grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Conviene ammettere, che le sue ambizioni sono state giustificate ai suoi occhi dalla politica occidentale. L’allargamento della Nato sino alle Repubbliche del Baltico, la prospettiva di un ulteriore allargamento sino alla Georgia e all’Ucraina hanno risvegliato i due fondamentali e complementari ingredienti del nazionalismo russo: l’ambizione e la paura. Le sanzioni se verranno applicate avranno probabilmente l’effetto di allargare quella base nazionalista su cui Putin ha fondato la propria popolarità e autorità. E renderanno ancora più difficile lo sviluppo in Russia di una società civile laica e democratica.