Marco Imarisio, Corriere della Sera 8/3/2014, 8 marzo 2014
MILANO —
Lella Golfo guarda ciò che accade in parlamento, con l’Italicum bloccato dalle parlamentari perché non prevede «regole cogenti» per promuovere la presenza femminile. Golfo è stata tra le prime a protestare. D’altra parte, la presidente della Fondazione Bellisario è la (ex) parlamentare che ha proposto e portato ad approvazione, insieme alla deputata Alessia Mosca, una legge la cui portata è andata oltre le previsioni (e che le è costata la riconferma nelle liste del Pdl). La legge sulle quote di genere.
Se oggi le parlamentari fermano l’Italicum è anche perché si sono visti gli effetti della normativa approvata tre anni fa e osteggiata fino all’ultimo momento. «Ho dovuto convincerli uno per uno — ricorda Golfo —. Non dimenticherò mai il parlamentare siciliano, oggi sottosegretario, che mi disse “io non approverò mai questa legge” e che poi ho ritrovato in commissione a votare sì. Gli ho chiesto: “Cosa fai qui?”, e lui mi ha risposto: “Ho due figlie”».
Se si guardano i dati pubblicati in questa pagina si vede il salto che è stato fatto dalle società quotate in Borsa. Dopo più di settant’anni dal primo ingresso di una donna, solo nel 2007 era stata superata la soglia del 5%: oggi si è oltrepassato il 17% (dati Paola Profeta, Bocconi). E tra un paio di mesi il numero sarà più alto, si toccherà il 20%: in primavera si svolgeranno le assemblee che dovranno rinnovare 65 consigli di amministrazione e 73 collegi sindacali, portando altre 50 consigliere di amministrazione e 80 sindache.
La grande scommessa saranno le società pubbliche. Colossi come Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, finora «club per soli uomini», dovranno, necessariamente, riservare il 20% dei Cda e dei collegi sindacali al genere meno rappresentato (a partire dal secondo rinnovo la quota salirà al 33%). Si dice che si stia cercando il profilo di una donna come amministratrice delegata in uno dei grandi colossi di Stato, le liste diranno se sarà stato solo un esercizio o una volontà.
Il dato positivo della legge è stato quello di avviare una riflessione sullo stesso ruolo dei Cda, sulle competenze. Si valutano i curricula delle donne come quelli degli uomini. Non illudiamoci: non lo fanno tutti, per troppi è ancora solo un elemento di facciata, ma che il dibattito si sia messo in moto è un dato di fatto.
Linda Laura Sabbadini, direttrice dipartimento statistiche sociali dell’Istat, ricorda per esempio come «la doppia preferenza di genere introdotta da alcuni partiti abbia favorito la partecipazione femminile», tanto da avere il parlamento a maggior presenza di donne di sempre (31%). E le ricerche Istat dicono che «i cittadini, sia maschi che femmine, vedono positivamente una maggior presenza delle donne nei luoghi decisionali. Le deputate interpretano un sentimento generale».
Gli studi, d’altronde, sono ormai unanimi nel dire che esiste una relazione positiva tra presenza femminile ai vertici e risultati aziendali. L’ultima conferma arriva dalle imprese familiari: il Roe (l’indicatore della performance aziendale) è superiore del 5% rispetto alla media quando il consiglio di amministrazione è misto e i risultati migliori si ottengono là dove «le donne raggiungono una massa critica», ovvero siano 3 o più (Aub 2013).
Il vero punto debole resta il lavoro femminile, che non si sposta dal 46% e che è la media tra un Nord che va verso i livelli europei e un Sud che continua ad avere tassi di occupazione bassissimi. Eppure a partire dal 2000 in Europa si è ridotto il gap tra uomini e donne come partecipazione al lavoro, in particolare nel sud Europa e soprattutto in Spagna (dati PwC-Women in Work Index).
Non in Italia. Il nostro Paese è terz’ultimo nella Ue e solo «grazie» all’ulteriore discesa della Grecia. Nel 2013 anche l’occupazione femminile — che negli anni precedenti aveva tenuto — è tornata a scendere, 130 mila donne occupate in meno. Goldman Sachs aveva calcolato che la parità di genere porterebbe un aumento del Pil in Italia del 22%. Il punto è uscire dalla crisi.
Maria Silvia Sacchi