Gabriele Romagnoli, la Repubblica 8/3/2014, 8 marzo 2014
Quarant’anni fa (il 9 marzo 1974) a Lubang, nell’arcipelago delle Filippine, l’ufficiale Hiroo Onoda terminò la sua guerra mondiale, smise di essere un combattente e diventò una categoria dello spirito: l’ultimo giapponese
Quarant’anni fa (il 9 marzo 1974) a Lubang, nell’arcipelago delle Filippine, l’ufficiale Hiroo Onoda terminò la sua guerra mondiale, smise di essere un combattente e diventò una categoria dello spirito: l’ultimo giapponese. La sua storia personale è il paradigma di una condizione esistenziale: quella di chi resiste a cambiamenti già avvenuti e accettati dalla collettività. Alla morte, avvenuta nel gennaio scorso, è stato celebrato non come un uomo, ma come una modalità dell’essere. Sulla Stampa, ad esempio, Jacopo Jacoboni ha definito l’Italia un Paese di “ultimi giapponesi” e ne ha tentato una lista, che cominciava con Massimo D’Alema (l’ultimo cinese?). Nel pollaio della politica nostrana l’espressione è in effetti ricorrente. Vuoi per definizione: da ultima Mara Carfagna, con relativa chiaroveggenza, a fine gennaio indicava come “ultimo giapponese”, incapace di rassegnarsi, Enrico Letta. Vuoi per autodefinizione: nel 2008 Marco Pannella si proclamò “ultimo giapponese” del governo Prodi, e lì si capì che l’atomica era prossima. In tempi più recenti si è autonominato “ultimo giapponese, restìo a piegarsi” il governatore piemontese Cota. Nonché, con sprezzo della geografia e della storia, “ultimo giapponese padano”, il segretario leghista Salvini. Confinare la categoria in questi limiti sarebbe sminuirla e fare un torto anche all’avventura di Onoda, capace di sopravvivere trent’anni in un territorio straniero e ostile, di continuare a combattere, perdendo compagni, uccidendo presunti nemici, fedele a un ordine e risoluto a obbedire non al principio di realtà né a un eventuale segno dal cielo, ma soltanto alla prosaica e aritmetica efficacia di un contrordine. Per rendergli giustizia bisogna quindi cercare di individuare figure di epigoni più disparate e interessanti, nonché le ragioni del fascino esercitato da un personaggio che, illogico e perdente com’è, non dovrebbe averne alcuno. Esiste anzitutto, una declinazione letteraria- sentimentale dell’ultimo giapponese. Come Onoda amava la bandiera, costui ama un’altra persona e considera questa passione la sua missione terrena, al di là di ogni evidenza contraria. La sua incarnazione romanzesca è il Florentino Ariza di L’amore ai tempi del colera. La sua Firmina Daza può abbandonarlo, tradirlo, sposare un altro, lui può fare altrettanto, ma il suo sentimento resterà incrollabile, pronto a riaccendersi a ogni suggestione o incrocio, fino all’incontro finale, alla rotta di navigazione senza porto che spingerà il capitano incredulo a domandare: «Per quanto deve durare questo andirivieni del cazzo?» e Florentino a rispondere trionfante: «Toda la vida». Tutti conosciamo uomini o donne divorziati o semplicemente lasciati da tempo immemorabile che ancora conservano fotografie, ricordi e, soprattutto, una speranza. Come Onoda rispondeva a un solo referente, il maggiore Taniguchi che gli intimò di non arrendersi e alla cui voce soltanto, trent’anni dopo, obbedì, così costoro hanno un solo superiore, ma neppure alla sua voce o al suo comando consegnano le armi del cuore. Il che spesso ha risvolti, anziché fiabeschi, tragici. Tre colonne in cronaca: uccide la ex che non voleva tornare con lui. Dicono in America: non è finita finchè non è finita. E’ una bella espressione: ispira grandi rimonte sportive (i Boston Red Sox) o elettorali (Bill Clinton nel ‘92). L’ultimo giapponese va oltre: non è finita neppure quando è finita. Come ogni teoria non supportata dalla ragione è tanto attraente quanto pericolosa. Ci sono ultimi giapponesi anti-tecnologici la cui posizione sconfina in un luddismo aristocratico da stilografica di lusso. Ultimi giapponesi “armiamoci e partite”, tipo il regista danese Lars von Trier, che fonda il movimento Dogma, detta regole contro ogni effetto men che speciale, fa proseliti, poi gira come gli pare e piace. Ultimi giapponesi bipartisan, come lo scrittore Antonio Pennacchi, fasciocomunista e bastian contrariato. Prima che tutto questo diventi un gioco classificatorio da paginone doppio di settimanale, fermiamoci e analizziamo le ragioni per cui, in fondo, l’ultimo giapponese ci attira. Che cosa c’è in lui di tanto affascinante? Certo, è una figura straordinaria, ma non positiva. Ha una grandiosa forza narrativa, ma non troppo senso. E’ crepuscolare, rischiando di sconfinare nel patetico. E se non troviamo qualcosa di più finiamo per scivolare nel dubbio di Charlie Brown. Quel gran filosofo del Novecento che fu Charles Schultz disegnò una striscia in cui nella prima vignetta il ragazzino protagonista appariva sul monte di lancio del campo da baseball, solo, sotto un diluvio. Nella seconda si chiedeva: «Come mai sono l’unico qui, oggi?». Nella terza si rispondeva o cercava di rispondersi: «Forse perché sono il più determinato? Il più impavido? Il più attaccato alla maglia?». Nell’ultima gli si affacciava un’alternativa: «O il più stupido?». Ecco, non c’è chi non abbia pensato che Onoda e, per la proprietà transitiva, certi suoi emuli, fosse un po’ sciocco, rifiutando di credere a tutte le prove (testimoni, volantini dal cielo, trasmissioni radio). E tuttavia ha prevalso una sorta di ammirazione. Perché? Il fondamento va probabilmente ricercato nel fatto che l’ultimo giapponese è, anche, l’estremo custode delle regole. Di più: un estremista delle regole. Un fondamentalista laico. Ha accettato un codice e a quello si attiene. Lo antepone alla propria esistenza e al suo significato, perché pensa che questa lo perderebbe, se lui non obbedisse. Nell’universo del “vale tutto” in cui viviamo, il suo essere opposto risulta stupefacente. A maggior ragione se non si tratta di “chiacchiere e distintivo”, di una dichiarazione programmatica da talk show, ma di una scelta di vita suffragata dai fatti. Dopodichè, nove mesi più tardi, nel dicembre del 1974, fu scovato e si arrese tal Teruo Nakamura, anche lui soldato indomito di una guerra finita da tempo. Poiché era nato a Taiwan, benché di origini nobili giapponesi, i media che già avevano celebrato come ultimo Onoda lo confinarono a un’appendice nel libro della storia. La sua posizione resta però indiscutibile e dimostra che chiunque si consideri un “ultimo giapponese” ne ha in realtà un altro alle spalle, da cui guardarsi, perché le guerre finiscono sì ma, senza regole, va a sapere quando. © RIPRODUZIONE RISERVATA L’irriducibile Sopra, nella foto, il soldato Hiroo Onoda Nato a Kainan nel 1922, morto a Tokyo il 16 gennaio di quest’anno, fu inviato durante la seconda guerra mondiale nelle Filippine. Dopo la disfatta giapponese si nascose e non volle mai arrendersi. Fu arrestato a Lubang il 9 marzo del 1974