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 2014  marzo 07 Venerdì calendario

LA DOPPIA FACCIA DI LONDRA GIOVA ALL’ECONOMIA MA NON FA BENE ALLA POLITICA


Aspettatevi manifestazioni sempre più frequenti dalle parti di Harrods. Pochi giorni fa, in uno dei momenti più drammatici della crisi dell’Ucraina, un gruppo di giovani ha organizzato un picchetto – giorno e notte – a poche centinaia di metri dai grandi magazzini, nel cuore di Knightsbridge, area a elevata eleganza di Londra. Bandiere gialloblù che sventolavano davanti all’ingresso del One Hyde Park, forse il condo più esclusivo della capitale: interni raffinatissimi, pareti di cristallo, vista sul Royal Park. Sui cartelli, gli slogan erano contro Rinat Akhmetov, l’oligarca più ricco d’Ucraina, che nel 2011 al super-prestigioso indirizzo ha comprato una penthouse su tre piani, 136 milioni di sterline, 165 milioni in euro. Nelle intenzioni, la manifestazione era un riflettore acceso sugli eventi di Kiev. Ma illuminava bene anche quel che è oggi la Gran Bretagna, anzi la sua onnivora capitale.
Nel loro supremo understatement, in pubblico i sudditi del Regno si inchinano alle Bmw dei tedeschi, ai doppio petto di Giorgio Armani e accettano un’inferiorità industriale. E, in effetti, quando si viene alle esportazioni il Paese ha vissuto epoche migliori: la bilancia delle partite correnti è al momento in deficit per il 4% del reddito nazionale, non poco. Eppure, si può dire senza pericolo di esagerare che la Gran Bretagna è il Paese occidentale che, probabilmente dopo la Svizzera, si è maggiormente avvantaggiato della globalizzazione degli scorsi trent’anni. Grazie soprattutto a Londra: la metropoli più globale del pianeta, quasi slegata dal suo retroterra nazionale ma collegata con mille fili ai centri della ricchezza internazionale, di fatto un centro offshore nel quale la “classe globale” degli iper-ricchi ha deciso che non si può non avere almeno dieci stanze.
Nello stesso One Hyde Park hanno casa Vladimir Kim, oligarca kazaco (di origine coreana), e l’ex primo ministro del Qatar Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani: di fianco al più grande negozio Rolex d’Europa, al rivenditore di McLaren e allo sportello della Abu Dhabi Islamic Bank. E i quartieri di Belgravia, Chelsea, Mayfair sono casa per oligarchi russi, industriali indiani, uomini d’affari cinesi, petrolieri del Golfo, amministratori delegati americani, ereditieri argentini; nessuno rinuncia alla Über-London. La questione ha una rilevanza economica straordinaria, anche se non sempre è registrata nelle statistiche ufficiali.

Il peso del “fattore esterno”. In un discorso piuttosto rilevante del 26 febbraio scorso, Ben Broadbent, un economista membro esterno del Comitato di politica monetaria della Bank of England, ha notato che la produttività britannica relativa a quella degli Stati Uniti (misurata in termini di Pil per posto di lavoro) è scesa drammaticamente per tutti gli Anni Trenta e Quaranta, decenni di stagnazione e di regresso del commercio mondiale e dei movimenti dei capitali. Ma è tornata a salire via via che la globalizzazione ha preso quota, fino a sopra l’80% nella prima metà del decennio scorso. Per poi calare durante la crisi. La sua conclusione è che la pioggia non è la sola cosa che il Regno Unito importa dall’Atlantico e da altri oceani: arrivano anche elementi positivi e negativi che condizionano non poco l’economia. È che, probabilmente, in Gran Bretagna il “fattore esterno” rispetto alla domanda interna pesa più che altrove. Perché il Paese è estremamente aperto e per l’importanza che ha la finanza globale sul Prodotto interno lordo: ma non solo per questo, anche attraverso la ragnatela di fili che unisce il Paese al resto del mondo, qualcosa che può addirittura offuscare la debolezza relativa dell’export industriale.
Neil Record, un ex economista alla Bank of England, ha per esempio paragonato le abitazioni di lusso costruite nella capitale e vendute solo a stranieri all’estrazione di argento e alla sua lavorazione: con un effetto che potenzialmente può valere l’1% del Pil del Paese. Queste vendite immobiliari non vanno a gonfiare le statistiche delle esportazioni, al più vengono registrate come investimenti netti dall’estero se il denaro usato dall’oligarca ucraino o dallo sceicco del Golfo entrano nel Paese. Ma sono un motore potente per l’economia. Non che le esportazioni manchino: la produzione britannica di auto è ai massimi storici e l’80% viene esportato. Ma la chiave per capire il cuore della questione britannica oggi è questa economia che funziona un po’ diversamente da quelle del continente europeo, dipendente all’estremo dalla sua integrazione nelle reti globali. Roman Ahramovich che cerca uno stadio con cui sostituire lo Stamford Bridge del Chelsea non è solo notizia delle pagine sportive: è un pezzo del cuore dell’economia britannica.
Il Paese di là dalla Manica conferma insomma di essere eccentrico rispetto al continente. E dunque difficile da tenere legato a un progetto come quello dell’Unione europea. La tentazione britannica di rompere con Bruxelles è culturale, ideologica, politica ma è anche molto radicata nelle differenze della struttura economica. Quando Tony Blair e Gordon Brown presero in considerazione l’idea (peregrina) di entrare nell’euro, dissero che l’avrebbero fatto quando il ciclo economico dell’isola sarebbe stato in sincronia con quello del continente. Dal momento che la sincronizzazione arrivò solo con lo scoppio della Grande crisi del 2008, non se ne fece nulla. E non se ne farà nulla per chissà quanto tempo. Anzi, l’attuale primo ministro David Cameron è alle prese con la temeraria promessa di tenere, se il suo partito conservatore vincerà le prossime elezioni, un referendum nel 2017 per decidere se il Regno debba rimanere nella Ue o rompere e seguire la globalizzazione sulle vecchie rotte del Commonwealth.

La “Repatriation”. La strategia di Cameron e del suo Cancelliere dello Scacchiere George Osborne è chiara nelle linee generali. Vogliono che al referendum la Gran Bretagna voti a favore della Ue. Ma usano la minaccia di uscire dall’Unione per chiedere una serie di riforme a Bruxelles. È la cosiddetta Repatriation, il riportare in ambito nazionale una serie di poteri che ora sono detenuti dalla Commissione: a Bruxelles si fa solo quello che non si può fare a Londra. È un anatema per molti dei governi europei: la fine del processo di integrazione così come l’abbiamo conosciuto nei decenni scorsi. Non fino al punto, però, di essere una scelta isolata, in Europa. Il governo olandese, pur non volendo cambiare i trattati della Ue, ha fatto sapere che considera finita la stagione dell’integrazione sempre più spinta, vuole negoziare un nuovo Manifesto sulla governance europea e ha indicato che intende riportare a casa decine di politiche oggi gestite a Bruxelles.
Posizioni su questa lunghezza d’onda – più o meno estreme – Cameron le trova nella Repubblica Ceca, nel governo di Budapest, in parti della politica polacca. E la sua strategia potrebbe diventare un argomento forte dopo le elezioni di maggio del Parlamento di Strasburgo, nel quale probabilmente entreranno molti eletti dei partiti e dei movimenti apertamente anti-Ue: potrà dire che il modo per recuperare consensi su un progetto europeo passa per il ridimensionamento drastico delle funzioni centrali dell’Unione. Che è però il contrario di quanto sostengono – almeno ufficialmente – i leader continentali più influenti, i “grandi azionisti” della Ue, Angela Merkel da Berlino e François Hollande da Parigi: secondo loro la Grande crisi ha dimostrato che serve “più Europa”.

Un nuovo libro delle regole. È a questo punto, quando si arriva al concreto, che la linea di condotta del governo di Londra diventa meno chiara. A Whitehall – la strada densa di potere che va da Trafalgar Square alla House of Commons – gli alti funzionari dello Stato non lavoravano così (si fa per dire) da anni. Fervore apparente, tra i numeri 10 e 11 di Downing Street, residenze del primo ministro e del Cancelliere dello Scacchiere-Lord of the Treasury, e soprattutto nell’infilata di ministeri e di sedi dell’Amministrazione di Sua maestà che si affacciano sulla strada, dal mitico Foreign Office al dipartimento dell’Energia. È qui, in questi palazzi gloriosi per le memorie imperiali e sobri per l’arredamento dimesso, che da qualche mese i civil servant sono al lavoro, cartelle sotto il braccio, per produrre una lista di quel che si può strappare a Bruxelles e di quanto andrà lasciato alla Ue. Per ora, tutto ancora piuttosto confuso, però. Forse non per caso. Una volta delineati i dettagli, infatti, Cameron dovrà negoziare con i 27 partner, se ci riuscirà, il nuovo libro delle regole della Ue. Non sarà facile, a Bruxelles molti vorrebbero che Londra togliesse il disturbo. Non tutti: Frau Merkel, per esempio, crede che un’Europa senza la Gran Bretagna sarebbe meno influente nel mondo e perderebbe una voce liberale al suo interno. E Cameron la corteggia: nella sua visita del 27 febbraio a Londra, la cancelliere tedesca ha incontrato la Regina Elisabetta e soprattutto ha avuto il raro onore di parlare ad ambedue le camere della Madre di tutti i parlamenti, Westminster. Probabilmente è disposta a fare alcune concessioni, cosicché Cameron possa vincere il referendum nel 2017. Ciò nonostante, non è affatto detto che la strategia di Downing Street funzioni: altri partner europei sono molto più duri dei tedeschi e comunque un gran numero di cittadini dice di volere abbandonare la Ue. La Brexit – British Exit – non si può escludere.

Nostalgia del Commonwealth. Quel che si gioca Londra in questi anni è insomma molto, molto rilevante. Non solo il suo ruolo in Europa: probabilmente anche quello nel mondo. Si confrontano due teorie. La prima – sostenuta dai Tories di Cameron, dagli alleati di governo liberal-democratici di Nick Clegg e dall’opposizione laburista di Ed Miliband – dice che in un mondo aperto e con nuovi giganti economici emergenti è meglio stare in Europa. L’altra, sostenuta soprattutto dallo Uk Independence Party (Ukip), sostiene che nell’era della globalizzazione si può abbandonare Bruxelles e prosperare sulle vecchie relazioni del Commonwealth e sui rapporti con i ricchi del nuovo mondo, oligarchi russi o industriali indiani che siano (i sondaggi danno lo Ukip primo partito alle europee, attorno al 27%). Al momento, il risultato di questo stare con un piede dentro la Ue e uno fuori è una ripresa molto più sostenuta di quella continentale: le previsioni indicano una crescita del Pil superiore al 3% nel 2014; e il centro di ricerca Cebr stima addirittura che l’economia britannica superi per dimensioni quella tedesca attorno al 2030. Ma, in parallelo, un’influenza politica calante: la mediazione europea in Ucraina è stata fatta dai ministri di Francia, Germania e Polonia. Senza Londra, inimmaginabile con Thatcher o con Blair: a segnalare l’utilità relativa degli oligarchi della food-hall di Harrods.
@danilotaino