Claudio Carabba, Sette 7/3/2014, 7 marzo 2014
CON UN RUGGITO LO SCHERMO SI FECE PIÙ GRANDE
Il leone è alto, un po’ assorto, sopra una specie di trespolo fatto di cassette di legno; guarda sonnacchioso nella macchina da presa che è davanti a lui. Un po’ più in basso siede un operatore piuttosto perplesso. Lo scatto è del 1928, quando il cinema imparò a parlare: e quella vecchia foto, stampata in formato gigante in un bel libro sulla storia di Hollywood (il testo è di Kevin Brownlow, le fotografie di John Kobal, edito in Italia da Garzanti nel 1980) è una delle mie immagini del cuore. Tanto tempo è passato: nell’aprile del 2014 la Metro Goldwyn Mayer festeggerà i suoi novant’anni di attività e il leone. “Il re” della prima volta si chiamava Slats, era nato nello zoo di Dublino il 20 marzo del 1918 ed era stato addestrato, da un abile domatore (Vol-ney Phifer) a ruggire quando veniva dato il segnale del ciak. Morì nel 1936 e venne sepolto, con tutti gli onori, a Gillette, nel New Jersey. Dopo di lui si sono succedute sette od otto fiere maestose. E naturalmente tante altre cose sono mutate. Finita l’età dell’oro (più o meno nel decennio Cinquanta) e scomparsi i padri fondatori, la casa è passata di mano in mano. All’inizio del decennio 90 per esempio la conquistò un avventuroso corsaro italiano, Giancarlo Parretti, detto per l’appunto il “leone d’Orvieto” (racconteremo meglio la sua avventura più avanti). Oggi la Mgm è nelle mani di un consorzio multinazionale (fra i soci ci sono varie banche e la potente Sony) ed è diretta da Gary Barber, un produttore di lungo corso; coproduce o distribuisce alcuni nuovi kolossal (la saga dello Hobbit del neozelandese Peter Jackson), ed è assai impegnata nel restauro di preziosi classici, per il mercato del dvd e del blu-ray. Ma per capire il suo fascino converrà ripartire dal travolgente inizio, dalla nascita della leggenda.
Samuel Goldwyn, detto Sam, e Louis Mayer decisero di unirsi appunto nel 1924. Samuel era nato a Varsavia nel 1882, era scappato dal ghetto della sua città a 11 anni per andarsene in Inghilterra e da lì era partito sulla rotta di Colombo (più o meno) verso l’America. Da giovane era stato un mercante di guanti e si era buttato nella nascente industria del cinema verso il 1913. La crisi stava per travolgerlo quando incontrò mister Mayer, anche lui emigrante avventuroso, che era venuto dalla Russia (Minsk, 1885) e si era consolidato nel commercio di rottami, prima di scoprire il fascino dei film e delle salette buie (le chiamavano Nickelodeon).
Il socio occulto. Dietro di loro c’era un altro ebreo intraprendente, Marcus Loew, nato un po’ prima (nel 1870, a New York) da una famiglia poverissima, ma già ricco proprietario di un circuito di cinema nel 1924. Fu lui a guidare l’operazione ma preferì non figurare nei titoli di testa; e comunque un infarto se lo portò via nel 1927. All’ombra dello Studio, che crebbe in fretta, lavorò sin dall’inizio un tycoon (ovvero un produttore esecutivo) intelligente e spietato, il pallido Irving Thalberg. Il primo titolo importante che uscì dalla casa fu L’uomo che prende gli schiaffi, diretto dal regista svedese Victor Seastrom (uno dei maestri di Ingmar Bergman) e interpretato, nei panni di un clown triste, da Lon Chaney, mitico “mostro” dell’età del muto, Quasimodo e “Fantasma dell’Opera” forever.
Re dei dollari. La crescita, non solo della Metro, ma anche di altre case (la Warner Brothers, la Paramount, l’Universal), fu rapida e irresistibile. Dopo un primo sgomento, il cinema si rinforzò con la rivoluzione del sonoro e trovò una spinta dalla Grande Depressione, che travolse gli States; non potendo permettersi molto altro, le famiglie andavano a vedersi un film. I vari Studios cominciarono a mettere sotto contratto sceneggiatori, registi e specialmente gli attori, insomma inventarono i divi. La Metro puntò molto su un’affascinante signora venuta dalla Svezia (Greta Garbo), assai stimata e mai profondamente amata per colpa del suo carattere gelido e distante; più forte ed emotivo fu il legame con Clark Gable, un bel giovanotto dall’aria sfrontata. Nei giorni aurei si facevano i conti e i baratti giocando su questi nomi: «Quest’anno abbiamo tre Gable da vendere sul mercato». Era lo “star system”, o secondo alcuni filologi lo “Studio System”. Si decideva in maniera piuttosto veloce. Si racconta che Louis B. Mayer, ormai l’uomo più importante di Hollywood, non fosse proprio un analfabeta, ma non avesse alcuna voglia di leggere i copioni. Gli pareva una fatica inutile. Così fiorì l’arte della narrazione: se ne ricordò, nel 1992, Robert Altman raccontando l’angoscia e il delitto di un produttore in crisi in I protagonisti. Mayer dava pochi minuti agli aspiranti autori, che dovevano sintetizzare la loro idea in poche parole. In altri casi, quando era interessato, si faceva leggere qualche brano da una segretaria, novella Shahrazad da Mille e una notte: e infine, quando era incerto, mormorava «chiediamolo a Irving». Subito Irving Thalberg entrava nella stanza del capo. Pallido, di fragile aspetto, malaticcio, era duro e tagliente. Si era fatto un nome massacrando i sogni visionari di Erich von Stroheim (Femmine folli, Greed) e dava giudizi immediati e inappellabili. Qualche volta per la verità sbagliava gravemente: per esempio nel ’28, secondo diverse fonti, liquidò l’avvento del sonoro come un fenomeno da fiera, destinato a scomparire rapidamente (come i produttori, non troppo immaginari, del prezioso musical storico, Cantando sotto la pioggia). Ma si era fatto la fama di infallibile, un “re dei dollari” capace anche di rischiare, di investire un paio di volte all’anno su opere poco commerciabili, come il cupo e struggente Freaks (1932) di Tod Browning. Sotto la sua mano fredda capitò Francis Scott Fitzgerald, finito sotto contratto alla Metro nel 1936, spinto dal colore dei soldi. Presto deluso (e licenziato) il narratore si sfogò con Gli ultimi fuochi, romanzo incompiuto e uscito soltanto postumo, molti anni dopo. Nel 1976 Elia Kazan (anche lui al suo ultimo film, quasi che il soggetto portasse un po’ male) lo narrò sullo schermo, con Bob De Niro nei panni di un tycoon, molto somigliante a Thalberg. E la scena in cui il protagonista spiega cosa è il cinema usando una ragazza, un nichelino e una scatoletta di fiammiferi svedesi, è rimasta nelle antologie.
Codice etico Anni 30. Si è già notato che nonostante la sua aurea fama, l’invisibile Thalberg (il suo nome non compare mai nei titoli di testa) commetteva qualche errore: il più rovinoso fu lo sbaglio su Via col vento. Era un giorno di maggio del 1936, il romanzo di Margaret Mitchell non era ancora uscito in libreria, ma già se ne parlava come un evento. Louis Mayer si fece leggere un po’ del soggetto dalla sua narratrice di fiducia, Kate Corbaly, e a un certo punto ricorse alla sua carta preferita: «Chiamate Irving». Thalberg ascoltò per pochi minuti e poi sentenziò: «Lascia perdere Louis, i film sulla guerra di Secessione non hanno mai fatto un soldo». La Mgm poi rientrò nella partita, al fianco di David Selznick, grazie anche all’importanza di Clark Gable (Rhett Butler ideale), ma quella sentenza restò come un macigno addosso a Thalberg, per altro molto odiato da tanti colleghi schiacciati. Comunque Irving non fece in tempo a vedere Via col vento sullo schermo: fu infatti fulminato da una polmonite violenta proprio nel 1936. Raccontano che in molti furono contenti. E che Mayer e Goldwyn, che si erano serviti del suo comando ma ne erano piuttosto stufi, se non ballarono sulla sua tomba, cinicamente organizzarono una festa (un folle Hollywood party), la sera del suo funerale.
Aldilà della legge di Thalberg e del caso Via col vento, negli Anni 30 la Mgm aveva consolidato la sua posizione, alimentando il divismo (oltre al King Gable, cresce di anno in anno il fascino di Garbo), aveva frequentato diversi generi dal comico puro (gli scapigliati Fratelli Marx avevano preso il posto dei sublimi silenzi di Buster Keaton) e puntato forte sul musical. Magari Goldwyn&Mayer non avevano mostrato molto coraggio di fronte ai problemi del tempo. Si erano adeguati senza troppa resistenza al ferreo codice morale (insomma, una terribile censura anche preventiva) imposto dal cosiddetto codice Hays studiato dal 1930 ed entrato in vigore dal 1934 (niente nudi, attenzione al linguaggio, divieto di amori interrazziali e via vietando) e si erano mostrati assai cauti davanti al nazismo. Finché l’America non entrò nella Seconda guerra mondiale la Metro evitò di produrre film antihitleriani, tenendo conto che il Paese era poco interessato alle tragedie d’Europa, o addirittura simpatizzante con i tedeschi; sì come ha raccontato Philip Roth nel suo bel romanzo “fantapolitico” Il complotto contro l’America. Finito il conflitto, la situazione continuò a essere complicata. Il codice Hays restò in vigore (sino al 1960), ancorché in maniera meno rigida. E la guerra fredda, con la paura dell’Urss di Stalin, scatenò il maccartismo, la caccia ai rossi comunisti che in verità era cominciata nel decennio Trenta, ma era stata sospesa proprio durante la guerra. I grandi Studi dovettero rinunciare, più o meno a malincuore, a qualche regista e a moltissimi sceneggiatori di qualità. Ancora a caldo la Mgm aveva prodotto un fortunatissimo film sul Grande Pease ferito. Il titolo, I migliori anni della nostra vita (1946), è rimasto come una citazione proverbiale, persino cantabile (Renato Zero). In cabina di regia William Wyler intreccia con stile possente le storie di alcuni reduci, maltrattati e spaesati. Arrivano sette Oscar (miglior film, miglior regia …) e Mayer commenterà orgoglioso: «È il più bel film che io ho mai fatto». Ma, a poco a poco, i due timonieri persero importanza: Mayer morì presto, nel 1957; Sam Goldwyn visse più a lungo, sino al 1974, ma in un dorato angolo, senza più il potere assoluto fra le mani. L’ultimo successo voluto in prima persona da lui fu Bulli e pupe (1955) in cui Marlon Brando ballava e cantava accanto a Frank Sinatra. Crebbero altre figure, magari senza apparire in primo piano. I due massimi kolossal storico-romani degli Anni Cinquanta (Quo vadis? e Ben Hur) quando Hollywood si trasferì sul Tevere, furono guidati dal punto di vista produttivo da Sam Zimbalist, un dirigente di lungo corso che aveva cominciato a lavorare alla fine del muto. A conferma che la gloria poteva costare molto, Zimbalist morì tradito dal cuore stanco, a Roma, durante la lavorazione di Ben Hur, nel 1958. L’anno successivo gli Accademici dell’Oscar, facendo uno strappo al regolamento, gli assegnarono una statuetta postuma alla carriera. Qualche tempo dopo, rendendo più solido il legame fra Hollywood e l’Italia, Carlo Ponti produce per Mgm Il dottor Zivago, grande successo mondiale. E fra i capolavori assoluti spicca l’ardito viaggio nello spazio verso l’eternità del sommo Stanley Kubrick di 2001: Odissea nello spazio. I tempi sono inquieti; il ’68 si fa sentire anche a Hollywood e persino all’Oscar. Una nuova generazione di registi impone anche in America «la politica degli autori» e appena può si mette in proprio: Lucas e Spielberg, i due predatori da “guerre stellari” e “arche perdute” dettano la loro legge. Di fronte a questa onda rivoluzionaria, la Metro Goldwyn Mayer tenta di resistere anche con la nostalgia e nel 1974, per festeggiare il suo cinquantesimo compleanno, sforna un film di montaggio un tantino frettoloso e troppo sbilanciato sul musical, C’era una volta Hollywood, dove la parola Hollywood si legge appunto Mgm. Il maggior successo di questo periodo è forse Rocky (1976), il melodramma da combattimento sul ring, scritto e interpretato dal giovane Stallone.
Un corsaro italiano. La premiata casa del Leone diventa un’azienda conquistabile; la proprietà cambia spesso di mano. È in questo quadro terremotato che nel 1990 arriva una notizia clamorosa: un cameriere italiano di nome Giancarlo Parretti, subito ribattezzato “il leone d’Orvieto”, si è comprato la Metro Goldwyn Mayer. Nato il 23 ottobre 1941, Parretti aveva davvero cominciato come cameriere al ristorante L’ancora, ma si era presto licenziato, con una mossa temeraria che sembra tratta da The Wolf of Wall Street, l’ultimo film di Martin Scorsese sui pirati della finanza. Già nel 1975 il corsaro italiano è nel mondo degli affari. Fondatore della catena di quotidiani locali I Diari, in società con un editore intellettuale come Cesare De Michelis, amministratore della Marsilio (lo è ancora) e fratello di Gianni, allora potente esponente del Psi di Bettino Craxi. Poi, prima di arrivare a Hollywood, Giancarlo P. fa un sacco di cose; affari pericolosi in Liberia, al fianco del dittatore Samule Doe (che finirà ammazzato su una pubblica piazza), proprietario di alberghi, linee aeree e concessioni di diamanti, per poche ore vicinissino al Milan (la squadra di calcio) tra la gestione sfortunata di Farina e l’avvento di Silvio Berlusconi. Parretti stringe relazioni pericolose con finanzieri da galera, ma è anche capace di diventare amico (o buon conoscente) di un presidente come Reagan e altri potenti della Terra. Va qui ricordato che anche la gioventù e l’ascesa degli emigranti fondatori (Goldwyn e Mayer) era stata parecchio avventurosa. Ma nessuno aveva loro rimproverato la povera giovinezza: mentre sulla vertiginosa carriera del “cameriere d’Orvieto” non c’è mai un cenno di benevolenza, anzi è evidente una negatività vagamente razzista (l’Italia come patria di pizzaioli e spaghettari). La sua scalata alla Metro è possibile grazie al finanziamento (650 milioni di dollari) proveniente da una banca pubblica francese, il Crédit Lyonnaise. Arrivato a Hollywood, Parretti si stabilisce in una grande villa a Beverly Hills, la riempie di quadri preziosi ( Picasso, Bruegel, Modigliani), seduce bellissime donne, per lo più attrici (ma si dice che Meryl Streep, da lui corteggiata, lo respinga con fiero sdegno). Fioriscono aneddoti. A cena con l’avvocato Agnelli e Henry Kissinger, il “leone d’Orvieto” avrebbe confidato: «Per me la Mgm è come una bella donna, l’importante è conquistarla, e dopo succeda quel che succeda». Insomma, al di là delle disavventure questo Parretti pare un bell’eroe dei nostri tempi, figlio (o padre?) della Milano da bere e antenato dei furbetti del nuovo secolo. Fra una distrazione e un intoppo, qualche film buono lo mette in cantiere: su tutti Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott, vibrante manifesto delle donne in fuga guerriera. Pare però che gli attori più famosi non si fidassero troppo della sua stabilità: per esempio nel 1990 Sean Connery avrebbe chiesto di essere pagato in anticipo (tutti i dollari e subito) per girare La casa Russia, bella spy story tratta da Le Carré. Il dettaglio è verosimile, ma non tanto significativo; dicono che Sean C., da scozzese duro, volesse vedere sempre il colore dei soldi, prima di cominciare a lavorare.
Il leone in gabbia. Quando il Crédit di Lione, in gravi difficoltà, gli toglie ogni credito, Parretti affonda. Lasciare la Mgm non gli basta. Viene più volte arrestato e processato in diversi Paesi (Usa, Francia e Inghilterra) ma, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, non sembra prendersela troppo: «Non ce l’ho con i magistrati, certo mi hanno arrestato cinque volte, però devo dire che mi hanno assolto cinque volte…». Per la verità nel 1999 un tribunale francese lo condannò a quattro anni di galera, non senza una multa di milioni di dollari, per frode fiscale e abuso di fondi aziendali. Magari non era una sentenza definitiva, la battaglia contro la banca francese è durata anni e anni. Innocente o colpevole che sia, Parretti ora vive tranquillo nella sua Orvieto, con la moglie e i figli. Su di lui Aureliano Amadei nel 2012 ha fatto anche un documentario speciale, intitolato fatalmente Il leone d’Orvieto, in cui (forse) la simpatia prevale sulle possibili colpe.
Fuggito Parretti da Hollywood, la Mgm cambia spesso di proprietà. Non è più l’epoca del padrone unico. Con la globalizzazione, i consigli d’amministrazione sono labirinti internazionali. Nel primo decennio del secolo nuovo, la crisi sembra irreversibile. Ma dal 2011 arrivano segnali di ripresa. La nuova Mgm compra i diritti per la versione americana di Millennium-Uomini che odiano le donne. La regia di David Fincher è buona, il nuovo Mister Bond, Daniel Craig, ha la faccia giusta per incarnare Mikael Blomkvist, intrepido giornalista da inchiesta senza barriere. E anche Rooney Mara nei panni della indomabile Lisbeth, pur non essendo inquietante come “l’originale” Noomi Rapace, se la cava: gli incassi, dettaglio da non sottovalutare, sono ottimi. La Metro entra poi in collaborazione con la Columbia o con la New Line Cinema, in imprese assai spettacolari e impegnative come Skyfall, l’ultimo 007, e la trilogia dello Hobbit (l’atto finale Andata e ritorno è atteso per il Natale 2014). Con nuove vesti e nuovi colori l’avventura sta ripartendo. Sarà quel che sarà. Ma resta indelebile, quasi una musica molto dolce e molto triste, la nostalgia per i lontani anni d’oro, i ruggenti Anni Trenta. Il ricordo di uomini duri e senza scrupoli come Sam Goldwyn e Louis Mayer, cacciatori di soldi e di sogni, pronti sempre a partire per film nuovi e terre immaginarie.
Claudio Carabba